1. Introduzione
Il pensiero politico italiano è sempre stato permeato dall'esigenza di ricomporre la politica "repubblicana" con la vita. Anche in questo senso si può forse leggere il recente tentativo di Roberto Esposito di ricostruire il filo unitario dell'Italian theory, da Machiavelli agli operaisti, passando – fra gli altri - per Vico, Leopardi e Gramsci1. Esposito mette in evidenza la sua nota saliente in una sporgenza del pensiero sulla vita rispetto ai modelli logo-centrici e linguistico-centrici prevalenti nella filosofia europea moderna e contemporanea e, rispetto a questi, quindi, più interdisciplinare e incentrata sulla politica e la storia. Le suggestive tesi di Esposito, autore per autore, sono tutte da discutere, ma quello che qui è utile fermare è l'idea che, a suo avviso, la filosofia italiana non nasca per fondare un soggetto moderno che presupponga lo stato-nazione, ma si radichi nella sua frammentazione istituzionale. Proprio perchè in ritardo rispetto a una compiuta modernizzazione, il pensiero italiano non se ne fa assorbire completamente, ne coglie gli aspetti problematici e pare quindi particolarmente attrezzato per confrontarsi con la globalizzazione post-moderna2.
Michel Foucault, in una delle sue lezioni del corso al College de France su Sicurezza, territorio e popolazione (1977-1978), offre alcuni interessanti motivi di riflessione sulla storia d'Italia. Lo studioso sottolinea come nonostante l'ampio sviluppo avuto dalle teorie della ragion di stato, in quest'area geografica è invece assente la pratica istituzionale e la riflessione sulla "polizia", intesa come idea del governo sulla popolazione basata su una regolamentazione "artificiale" mirata ad accrescere il benessere della stessa e la sua forza, in un contesto westfaliano in cui era diventato necessario mantenere l'equilibrio europeo sulla base, appunto, di un equilibrio di forze. Le cause sono forse da addebitarsi – continua Foucault – alla frantumazione territoriale dell'Italia, alla stagnazione economica dopo il XVII secolo, alla dominazione politica e economica da parte degli stranieri, alla presenza della chiesa come istituzione universalista, localizzata su un determinato territorio ma anche disseminata nelle altre aree. Quindi per gli stati italiani, sulla questione della crescita delle forze ha prevalso l'idea dell'equilibrio delle forze plurali non ancora unificate e forse non unificabili, con il conseguente primato della diplomazia sulla polizia. E' importante che Foucault aggiunga che questa situazione è rimasta tale anche dopo la costituzione dello stato italiano, che è sempre rimasto uno stato di "diplomazia" e non di "polizia": « c’est-à-dire – scrive Foucault - un ensemble de forces plurielles, entre lesquelles un équilibre doit être établi : entre les partis, les syndicats, les clientèles, l’Église, le Nord, le Sud, la mafia etc. […] Et c’est ce qui fait peut-être que, justement, quelque chose comme une guerre, ou une guérilla, ou une quasi-guerre est en permanence la forme d’existence de l’Etat italien »3. Tra l'altro è veramente illuminante un ulteriore spunto foucaultiano, purtroppo privo di approfondimento, che spiega come la medesima situazione di frantumazione provochi diversi effetti in Germania e in Italia, cioé uno stato molto forte in Germania e debole in Italia: perché negli stati tedeschi si assiste a « un développement théorique et pratique intense de ce que doit être la police comme mécanisme d’accroissement des forces de l’Etat »4.
Foucault avrebbe più avanti sottolineato come nel diciassettesimo secolo ai saperi mercantilistici legati allo stato di polizia, si sarebbero sostituiti quelli fisiocratici legati ad un'idea di "naturalità" dei meccanismi della società. Alla politica, insomma, veniva contrapposta la "società civile".
In questo saggio proponiamo un percorso fra alcuni testi cinematografici degli ultimi trent'anni, di cui viene analizzato il contenuto di pensiero. Si tratta di testi, quindi, dell'epoca della cosiddetta globalizzazione, interpretati alla luce di alcuni classici del pensiero politico italiano e della teoria sociale contemporanea, in cui risulta confermata la validità delle tesi di Esposito e di Foucault. Nel primo dei prossimi paragrafi saranno così analizzati una serie di film "in costume" (e talvolta le loro fonti letterarie), sulla storia d'Italia, ma elaborati nell'epoca presente e, in qualche modo, risultato dei problemi del presente. Nel secondo verranno invece rilette narrazioni filmiche incentrate sull'Italia della globalizzazione. Vedremo quindi come nei film sulla storia riemerga di continuo il tema della necessità di una ricomposizione repubblicana della frammentazione sociale e politica, ma, anche, il rischio nichilistico a cui quella può condurre se nella vita non vengano radicate le nuove forme; e come nei film sul tempo presente tale nodo riemerga, sebbene con la differenza che ora il nulla non incombe soltanto dal lato della Repubblica, ma, anche e soprattutto, da quello del potere neo-assolutistico e neo-oligarchico, intento a divorare lo spazio dei beni comuni.
2. La storia d’Italia nell’epoca della globalizzazione
Il deficit di politica in Italia, come si sa, era stato denunciato da Nicolò Machiavelli. Nell' Arte della guerra (1521) il Segretario fiorentino stigmatizzava che gli stati italiani si affidassero agli eserciti mercenari, anche perchè ciò rappresentava il prevalere del "denaro" sulla politica, cioé del "privato" sul "pubblico"5. I principi italiani, immersi negli agi e nelle dissolutezze, stavano già pagando il fio del particolarismo, impattando con gli eserciti oltremontani6. Da quest'opera legge alcuni brani Pietro Aretino a Giovanni delle Bande Nere, in un momento di riposo dalla battaglia, nel film il Mestiere delle armi di Ermanno Olmi, del 20017. Subito dopo questa scena segue quella in cui si viene a sapere del tradimento del Marchese di Gonzaga, che aveva aperto le porte ai Lanzichenecchi imperiali. Giovanni dice quindi ad Aretino: «lo vedi? E' la politica di Machiavello». Il marchese di Gonzaga infatti, lascivo giovin signore, vede nell'attivismo militare di Giovanni che, sotto le bandiere pontificie, con azioni di guerriglia, stava ostacolando decisivamente la calata degli imperiali in Italia, uno "scalmanato" che impediva lo scorrere quotidiano della vita. Giovanni, militare di professione, ma qui rappresentato come fedele al Papa, tradito anche da Alfonso d'Este Duca di Ferrara, che gli nega l'uso della propria artiglieria, poi ceduta in segreto ai Lanzichenecchi in cambio del matrimonio del figlio con una donna della famiglia imperiale, diventa quindi un simbolo sacrificale della logica "diplomatica" italiana. Giovanni in punto di morte – dopo esser stato ferito dal cannoncino di Alfonso, spianandosi così la strada agli imperiali di Fustemberg fino al sacco di Roma - rivendica di aver esercitato il mestiere delle armi come avrebbe vestito l'abito talare: quel "mestiere delle armi" che Foucault richiama come elemento originario della modernità statuale.
Qui si apre una problematica sottile. Da un lato, Machiavelli sembra ispirare Aretino e Giovanni in una comune idea di res pubblica assediata dalle forze disgreganti. Ma il commento ironico di Giovanni lascia pensare ad una riserva verso la "politica di Machiavello". Forse è una riserva verso gli artefici italiani di una "politica" impolitica, appunto, basata sull'interesse privato e quindi sulla diplomazia e non sulla polizia. Ma forse è anche il segno di un più profondo disincanto sulla capacità della politica di redimere la natura umana, sul fatto che alla fine la politica non difenda mai la "res pubblica" ma il principato e il suo "capriccio" particolaristico-patrimoniale, che a inizio degli anni duemila in Italia sembrava incarnarsi in una figura che riportava indietro le lancette della storia a quando l'interesse dello stato si identificava con quello della dinastia.
In qualche misura è quanto rilevava Giacomo Leopardi, nel 1824, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani8. Gli italiani sembrano in ritardo rispetto ai processi di modernizzazione, ma, in realtà – senza che ciò costituisse per il poeta un motivo di narcisistico compiacimento, tutt'altro – il problema è che essi, data la loro coscienza antica, avevano già decostruiti in anticipo i fondamenti emotivi e culturali delle istituzioni politiche e sociali moderne: ecco perchè in Italia mancava il senso dell'onore, cioé l'idea di acquisire prestigio per il bene dato alla comunità e abbondavano invece cinismo e particolarismo. Lo stesso Foucault9scriveva che gli italiani hanno definito per primi la ragion di stato perchè «les Italiens sont toujours d’un pas en avance sur nous et sur tout le monde », ma non sono sicuro che il filosofo volesse fare un complimento.
Il mestiere delle armi costituisce insomma una delle rare riflessioni contemporanee sulla genealogia della crisi italiana e non può certo spiegarsi senza ricordare il senso di vuoto apertosi nel paese dopo che la fine della prima repubblica e la "rivoluzione di tangentopoli", avevano ormai definitivamente manifestato i tratti di "rivoluzione passiva", per usare il termine gramsciano che indica processi di cambiamento dettati dall'alto, al fine di mantenere inalterata la struttura sociale. La fine della classe politica della prima Repubblica, in nome della lotta alla corruzione, non inaugura una nuova stagione ispirata ai valori, appunto, repubblicano-democratici. Ad un sistema di partiti autoreferente e in parte corrotto, basato sulla spesa pubblica, si andava a sostituire una privatizzazione e commercializzazione delle sfere della vita in cui rispetto ad altri paesi europei, come la Francia e la Germania, il carattere debole dell'architrave statuale ha fatto meno argine, con una politica oscillante fra il neo-patrimonialismo videocratico berlusconiano e quella che Perry Anderson ha definito la "sinistra invertebrata"10.
Ma il discorso di Olmi non si esaurisce certo nell'orizzonte italiano. La cifra della sua opera, infatti, è proprio la capacità di inserire questo in una più ampia riflessione sull'uomo e sulla storia. Nel recente Torneranno i prati11, Olmi proietta la condizione dei soldati nelle trincee della Grande Guerra in quella dell'orrore concentrazionario. Arendtianamente la modernità naufraga nel Novecento. Agli ufficiali formatisi nei licei e nelle facoltà di lettere, tutto l'umanesimo esaltato dai docenti appare precipitare in un insensato macello – con una consapevolezza più acuta di quanto non fosse nel protagonista della fonte ispiratrice del film, il racconto La paura di Federico De Roberto (1921)12-. Come animali che si accorgono di andare ad essere scannati, i contadini in divisa oscillano fra tragica rassegnazione e istintiva riluttanza a morire, in un'atmosfera da buzzatiano deserto dei Tartari.
La tragedia di questi contadini, nuovamente violentati dalla Storia, è narrata anche da Giorgio Diritti in L'uomo che verrà13, in cui è rievocata la strage di Marzabotto. «Chi se ne importa della storia e di chi la fa – dice il contadino al padrone -. Diventano importanti quelli che comandano e rubano ai poveracci». Chi parla è il padre di Martina, la protagonista del film. Questi, pur appoggiando la resistenza partigiana, rifiuta di prendere le armi, perché, indossando una divisa quale che sia, si diventa come "loro", come i nazi-fascisti: il problema è – precisa - "il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli". Alla ferocia dei nazisti, infatti, si contrappone fatalmente una forza che in certa misura deve similmente disumanizzarsi. In qualche modo la rappresentazione ricorda quella della Storia di Elsa Morante (anche se qui Martina, a differenza di Useppe, affrontando l'orrore della guerra, supera il suo trauma originario e si riapre alla vita). Non c'è, nel film di Diritti – come non c'era nella Morante -, il revisionismo dilagato dalla storiografia scientifica al senso comune diffuso nei media nazional-popolari, passando per certo giornalismo. L'opzione politica dei protagonisti è chiaramente e visceralmente antifascista. E i partigiani stanno dalla parte dei contadini: ma essi reagiscono alla violenza della storia entrando machiavellianamente nella dinamica dei mezzi, inevitabilmente rischiando di deragliare fuori dal fine. Il film di Diritti è del 2009: ancora una volta lo stato d'eccezione della crisi economica sottopone i "poveracci" alla legge del più forte, come nel '43, facendo strage dei "bisogni" diffusi in nome di una "crescita" funzionale ai profitti improduttivi delle élites.
Al padre di Martina – a cui il governo fascista impediva di lasciare il podere per cercare milgior fortuna - hanno insegnato che «non si chiedono soldi a chi ha bisogno». La stessa spontanea apertura verso la sofferenza e debolezza dell'altro, ritroviamo nel "Padron 'Ntoni" di Terraferma14, di Emanuele Crialese: egli si rifiuta di adottare verso i migranti disperati, approdati sulle coste della sua isola, la ratio persecutoria della nuova legislazione securitaria, resistendo alla logica commerciale ed edonistica incarnata dal suo figlio gestore di un locale per turisti. E' l'unico, quest'ultimo, che riesce ad arricchirsi, vendendo superficiale intrattenimento, mentre d'intorno avanzano precarietà e disoccupazione.
Di "rivoluzione passiva" – si diceva - parlava Gramsci, nei "Quaderni dal carcere", a proposito del Risorgimento. Una rivoluzione dall'alto, cioé - come l'attuale dilagare del neo-liberismo e finanz-capitalismo per Etienne Balibar15- che aveva solo la funzione di riprodurre in modo efficace la diplomazia e l'equilibrio dei potentati particolaristici, evitando un cambiamento reale dei rapporti di potere. Lo diceva già a chiare lettere Carlo Cattaneo, che, nel Saggio sulla rivoluzione del '48 a Milano, scriveva che la sconfitta della rivoluzione italiana – autonoma e democratica, a differenza dell'unificazione monarchica - fosse stata alla fine determinata da piemontesi e notabilato lombardo per paura che una vittoria contro gli austriaci favorisse la mobilitazione repubblicana dei volontari accorsi da tutt'Italia. Quando Cattaneo va a Parigi, all'indomani della presa di Milano, trova l'intelighensia propensa a lodare Carlo Alberto, lamentando l'immaturità alla libertà del popolo italiano16. Invece era andata diversamente: e cioé che se era "d'uopo conciliare e richiamare d'ogni parte li uomini liberi", se era "mestieri evocare in mezzo all'esercito lo spettro della forza popolare", il "re non lo poteva; doveva piuttosto ripiegare le sue tende, e rientrare vinto e taciturno nella sua reggia"17.
Il film che Mario Martone ha diretto su una sceneggiatura di De Cataldo, Noi credevamo18, parla anche di questo. E' la storia di due fratelli, meridionali del Cilento, che alla delusione del '48 reagiscono uno, Angelo, con il nichilismo terroristico, l'altro, Domenico, con un'intransigente militanza repubblicana che si deve misurare, soprattutto dopo l'unificazione, con il carattere repressivo ed elitario dello stato nazionale. Garibaldi, come Giovanni delle Bande Nere, deve capitolare. Il libro è tratto da un omonimo romanzo di Anna Banti, ma poco, di esso, viene ripreso nella trama. Comune il senso di frustrazione dopo le speranze deluse: per la Banti il riflesso è quello della resistenza "tradita" (siamo ancora nell'antivigilia del '68); in Martone quello, appunto, degli anni Settanta. E comune, anche, il riferimento ad una rivoluzione democratica immune da agganci al suolo o al sangue. Non si parla di Italia ma di Repubblica. Non è il Volk a interessare, ma il demos: un demos di cui, poi, non si trova traccia, per lo struggimento interiore dei protagonisti.
Ma c'è un altro tema in comune fra il film e il romanzo, forse, e cioé la problematizzazione della modernità politica. Il romanzo della Banti ruota tutto intorno al ventre oscuro dei dodici anni passati in carcere dal protagonista, che poi si ritroverà di fronte alla vita incapace di restituire reali emozioni, sottilmente turbato dai pochi frammenti di esistenza salvati alla militanza politica che l'aveva totalmente invaso, identificandola col padre precocemente perduto. Sembra quasi che il senso del romanzo della Banti sia proprio in ciò che non viene detto, in ciò di cui il protagonista è inconsapevolmente ingombrato. Nella trasposizione filmica di Martone il tema è ripreso – non so se intenzionalmente – nell'episodio dell'uomo col cardellino. Domenico e il figlio di un compagno di lotte di gioventù, mentre cercano di raggiungere Garibaldi per una delle sue ultime imprese, incontrano un uomo che si porta dietro un cardellino in gabbia, ricordo di sua moglie morta e della passata felicità. L'uomo rifiuta l'invito ad unirsi a loro, mostrando di credere ai valori della vita quotidiana, al rapporto con la natura e agli affetti, più che alle grandi speranze redentive della politica. E' qui rappresentato, in qualche misura, l'incunabolo del disimpegno, che avrebbe portato la generazione militante degli anni settanta sulla strada del privatismo. Ma si trattava anche di una coscienza critica che proiettava la dialettica dell'illuminismo sulla ragione politica, oltre che su quella tecnologico-economica. Si poneva cioé il problema di un pensiero che nel voler istituzionalizzare la repubblica (o la polizia) e azionando quindi i dispositivi del potere, non perdesse di vista a sua volta il senso profondo della vita, anzi cercando di restaurare le condizioni affinché questo senso potesse essere fruito da tutto il corpo della nazione19.
Il successivo film di Martone, Il giovane favoloso20, ricostruendo la vita di Giacomo Leopardi, prosegue in altro modo questo discorso. Leopardi si rivolta contro il carcere in cui l'antico regime costringe il suo spirito e il suo corpo, sentendo nella carne stessa gli effetti della repressione della libertà. L'allontanamento dalla natura e dal principio di piacere, fra Rousseau e Marcuse – Leopardi, i suoi fratelli, Ranieri, sono anche, ancora una volta, i giovani del '68 – non sfocia però nel populismo: anche le tradizioni, il piccolo mondo antico delle campagne e dei campanili italiani, è dal "giovane favoloso" sentito come una prigione, da cui l'illuminismo di Piero Giordani lo aiuta a uscire, magari insegnandogli ad accarezzare la pietra viva di una statua. Giacomo si rivolta contro la "prudenza", virtù controriformista, rimasta poi nella lunga durata della storia d'Italia a caratterizzare il trasformismo delle classi dirigenti e anche il "quieto vivere" delle masse popolari. Ma trovata infine la libertà, il giovane si ritrova in un'altra gabbia, questa volta d'acciaio: il liberalismo, che dice di voler sfasciare l'antico regime e costruire quell'Italia che Giacomo stesso sentiva come sua patria – ma, gramscianamente, come luogo di universalizzazione dell'esperienza umana, come orizzonte pubblico tessuto di lingua e di cultura e non di viete chiusure identitarie – gli appare funzionale alla ragione economica e commerciale, ammantate dal mito delle "magnifiche sorti e progressive". Non è la falsa coscienza del liberalismo dei Capponi e dei Tommaseo a cui Leopardi può guardare, ma a una visione più grande di emancipazione profondamente radicata nella vita, in cui la libertà dei soggetti è aperta alla responsabilità verso gli altri. I liberali del suo tempo vedono in Leopardi il pericolo di un pensiero critico che ostacola l'ascesa inarrestabile di Stato e mercato, stigmatizzandolo come inane nichilismo. Francesco de Sanctis aveva invece compreso come, a differenza di Schopenhauer – che in effetti era diversamente implicato nei processi politici di "distruzione della ragione" -, la critica di Leopardi faceva emergere il nulla su cui è sospesa la vita, ma poi più fortemente te la fa amare. Leopardi – aggiungeva De Sanctis - te lo saresti trovato a fianco sulle barricate del '48, quando divampò – e, come si è visto, fu presto spento – il fuoco della rivoluzione italiana.
La stessa tensione fra costruzione della res pubblica e potere destituente del nulla ritorna nel film Il resto di Niente di Antonietta De Lillo (2002), tratto dall'omonimo romanzo di Enzo Striano (1986), incentrato sulla figura di Eleonora de Fonseca Pimentel, la leader della Repubblica Partenopea del 1799, artefice del "Monitore napoletano", il giornale che cercava di "comunicare" il senso della rivoluzione. Quella rivoluzione, finita nel bagno di sangue operato dalle armate sanfediste e nella decapitazione della classe dirigente meridionale, ispirò a Vincenzo Cuoco – sopravvissuto alla strage borbonica - il suo importante Saggio, da cui poi Gramsci trasse il termine di “rivoluzione passiva”: i "giacobini" non riuscivano a parlare il linguaggio dei lazzari napoletani e a condividere i loro bisogni. Eleonora cerca di farlo, per portare il popolo alla rivoluzione (e non viceversa) ma ciò non è sufficiente ad evitare la sconfitta. Negli ultimi anni i salotti di sinistra italiani ed europei si sono chiesti perchè gli «italiani votassero Berlusconi», senza insieme domandarsi se ci fossero, in alternativa, altri soggetti che potessero rispondere ai bisogni di quegli elettori tornati ad essere volgo disperso e senza nome, a cui la Santa Fede, al tempo della Pimentel, dava almeno la speranza della salvezza eterna: come oggi i fratelli musulmani (oppure l'integralismo religioso) nelle "rivoluzioni passive" nordafricane e, in Occidente, la nuova sacralità dei miti desublimanti della televisione. Anche Eleonora, in un immaginario dialogo prima dell'esecuzione, con il maestro ideale Gaetano Filangieri, paragona le speranze di redenzione politica con la felicità della vita perduta per sempre: e si resta anche in questo caso sospesi fra il pathos repubblicano e la post-moderna tentazione del privato, forse in attesa della ricomposizione in un qualche "pensiero vivente". Il romanzo di Striano, anzi, nel cuore degli anni ottanta del Novecento, risentendo della crisi delle ideologie redentive e la prossima fine del mondo bipolare, rendeva fin troppo "secondaria" la svolta rivoluzionaria di Eleonora nel suo percorso biografico, come fosse stata un'estrema soluzione politica alla cognizione del nulla21 (non è un caso che anche Esposito parli di "resto di niente" per indicare lo scarto fra l'illusione poetica e il nulla in Leopardi22).
3. La grande finzione : l’Italia della globalizzazione
Oggi quella ragione politica, logocentrica o vivente che sia, sta segnando il passo dappertutto, divorata dalla razionalità economica e mercificante. Dalle note precedenti possiamo capire bene perchè in Italia la crisi si esprima in modo particolarmente lacerante. Le oligarchie affaristiche governano al posto dello stato e lo stato, la polizia, la res publica, è al servizio dei soldi, come Aretino, Machiavelli e Giovanni delle Bande Nere sapevano. Cattaneo e Gramsci ci spiegano poi perché l'unità non abbia prodotto, in Italia, istituzioni capaci di reggere l'impatto con la globalizzazione neo-liberista, essendo di esse costitutivo il particolarismo oligarchico. Ma attenzione: il caso italiano costituisce lo specchio di un processo europeo, anzi globale. Lo ha scritto di recente in modo lucidissimo lo scrittore francese Yannik Haennel23, in un suggestivo articolo su Liberation. Attualizzando le note leopardiane, infatti, Haennel, a proposito dell'attuale indifferentismo con cui gli italiani sembrano sopportare lo scadimento della politica ad ogni livello possibile, nel vuoto sempre più totale dello spirito pubblico, scrive: «L'Italia apparentemente sempre in ritardo, l'Italia vecchia e lenta, è invece in anticipo sul piano dei dispositivi di distruzione. Rende intellegibile ciò che demolisce in segreto le democrazie occidentali: la paralisi che è diventata il modo di funzionare globale della politica, quella morte della politica che non finirà mai di vivere come morte». Del resto anche Guy Debord, nei Commentari alla società dello spettacolo del 198824 considerava l'Italia – ma assieme alla Francia! - il laboratorio dello spettacolare integrato, così come gli Stati Uniti lo erano stati dello spettacolare diffuso e Russia e Germania di quello concentrato, e ciò anche per la necessità «d’en finir avec une contestation révolutionnaire apparue par surprise »
Ed è anche alla categoria dello "spettacolare integrato" che dobbiamo pensare per comprendere l'Italia degli ultimi decenni, nata dalla cenere di quel fuoco rivoluzionario. Nel film documentario Videocracy 25il regista italo-svedese Eric Gandini ricostruisce i processi di soggettivazione di massa operati dalla televisione privata, incarnatisi poi nelle istituzioni stesse in un processo accelerato di erosione della sovranità e della cittadinanza. Il processo di commercializzazione-privatizzazione, cioé, in Italia lascia le segrete stanze per uscire pienamente alla ribalta, dando una rappresentazione evidente dello stato delle cose. La sessualità mercificata diventa strumento di controllo di uno sciame di consumatori, sempre più passivi, di spazzatura immaginifica. Il sottotitolo del film, Basta apparire, esprime pienamente il senso del falso generalizzato di cui parla Debord: la realtà è scambiata con l'apparenza. La vita pubblica diventa una fiction.
Debord parla, nei Commentari, della crescente sovrapposizione di istituzioni e criminalità organizzata che, ovviamente, per attuarsi, necessita di ampie dosi di "narrazione" falsificante per mantenere la legittimità dello Stato. Di tale dinamica parlano due film-documentario recenti: La trattativa di Sabina Guzzanti26 e Belluscone- una storia siciliana27. Nel primo, attraverso un'indovinata rappresentazione meta-cinematografica, viene raccontato un punto di snodo cruciale della recente vita italiana e cioé il momento in cui, dopo gli anni di passione civile innescati e cementati dalla morte di Falcone e Borsellino e fioriti attorno alla primavera palermitana, la "rivoluzione" di tangentopoli è sussunta dal sistema e resa, anch'essa, "passiva": le cose non devono cambiare, se non in superficie. La mafia si ritira nell'alta finanza e lo stato riprende gli antichi costumi pacifici e conniventi. Il primato della società civile diventa delegittimazione delle istituzioni pubbliche a vantaggio delle lobbies private. Si tratta della versione post-moderna dello stesso intreccio fra stato, mafia e servizi segreti americani, narrato da Paolo Benvenuti in Segreti di Stato28. La strage di Portella della Ginestra avviene peraltro poco dopo le vittoriose elezioni della coalizione social-comunista alle elezioni regionali del 1947. Anche in questo caso Cattaneo avrebbe avuto materia per discutere con chi ritiene che al Sud la "società civile" è stata sempre politicamente acquiescente e passiva, senza sapere cosa, dai tempi dei fasci siciliani, si è puntualmente abbattutto in quest'area, allorché si fosse cercato di cambiare le cose.
Belluscone affronta lo stesso tema dell'incrocio fra istituzioni e criminalità organizzata, riprendendo i temi di Videocracy legati ai meccanismi di soggettivazione attraverso cui le masse rimangono catturate da un senso comune diffuso nella musica popolare e nella fiction, che le rende partecipi consensuali di tali giochi di potere. Se un limite può riscontrarsi in queste letture peraltro rigorose e suggestive è, appunto, l'enfasi sull'anomalia italiana che, invece, va letta piuttosto come una più forte caratterizzazione di processi globali in corso. L'Italia si è fermata per vent'anni, immersa in una bolla di sapone di problemi fittizi, gossip e storie inventate. Ma non è stata forse questa, anche, la storia del mondo degli ultimi decenni? Si veda del resto, in proposito, un paio di film (anche) sul blairismo: Philomena29e L'uomo nell'ombra30.
Che l'Italia sia stata un laboratorio di più ampie fenomenologie globali, lo ha capito anche Woody Allen, come si vede nel suo film To Rome with love31, non particolarmente amato da critica e pubblico, ma forse anche perché non capito. In realtà le quattro storie narrate parlano appunto della crescente commercializzazione della vita (l'episodio degli architetti e dell'impresario americano in pensione), dei dispositivi di seduzione e del narcisismo (ancora l'episodio degli architetti e poi quello degli sposini) fino alla marcusiana desublimazione repressiva che si produce nell'immenso reality della sfera pubblica televisiva di oggi, in cui il comune travet interpretato da Roberto Benigni diventa un personaggio desiderato ed esaltato, un po' come tanti italiani si sono riconusciuti in un leader che enfatizzava i loro stessi difetti, in un definitivo tramonto di ogni aura collettiva32.
Al tramonto del "trascendimento auratico" rimandano appunto due fra i film italiani migliori degli ultimi anni, e cioé Reality di Matteo Garrone33e La Grande bellezza di Paolo Sorrentino34. I due film sono complementari perché tematizzano la crisi mortale della società italiana, l'uno dal punto di vista di masse tornate ad essere una "plebe" pronta a cercare la salvezza nel miracolo di San Gennaro e ad affidarsi al Cardinale Ruffo; e l'altro da quello delle élites, ormai separate dalla vera vita e dimentiche della morte. In Reality, il pescivendolo protagonista vende il suo banco del pesce perché, avendo superato il primo provino del Grande Fratello, pensa di riuscire a vincere le selezioni successive fino a partecipare allo spettacolo nazionale. Inizia così a indebitarsi, rinnovando l'arredamento di casa per quando sarà intervistato (in una metaforica dismissione del lavoro produttivo a vantaggio del credito spettacolare). L'attesa di una chiamata della televisione diventa nevrosi psicotica e motivo di crescente rovina per sé e i suoi familiari, del resto essi stessi immersi nell'immaginario e nelle pratiche esistenziali indotte dall'industria dell'intrattenimento.
Ma se lo sfarinarsi delle culture politiche e sindacali, il declino dell'impegno all'acculturazione diffusa, la scomparsa del ruolo della scuola di fronte alle agenzie di socializzazione consumistica, riconsegna le masse popolari ad un destino di minorità e di assoluta integrazione con i valori trasmessi biopoliticamente dal potere, anche le classi dirigenti vivono una fase di assoluta anomia. Anche di questo parla La grande bellezza. Il protagonista, Jep Gambardella, è uno scrittore celebre per un'unica opera scritta all'inizio degli anni Settanta, L'apparato umano. Da allora non ha scritto più niente. L'unica possibile scrittura sarebbe infatti un romanzo flaubertiano sul nulla, che è esattamente la cifra costitutiva della storia d'Italia dalla fine degli anni ottanta in poi (i Commentari alla società dello spettacolo di Guy Debord sono del 1988). Jep, limitandosi perciò ad un'attività di giornalista culturale, si immerge in una frenetica vita notturna, che riproduce lo stesso profondo cupio dissolvi dei festini del popolo di Reality, solo in una versione molto più lussuosa. Imprenditori, intellettuali, uomini di spettacolo, aristocratici, prelati ed ereditieri, galleggiano fra drinks, karaoke, trenini (che "non vanno da nessuna parte") e gossip sulla vita privata degli amici. Tutti animati da un profondo narcisismo, che diventa persino ridicolo e irritante – cone Jep fa notare – quando si ammanta di politically correct: ambizioni artistiche d'avanguardia o "missioni civili". Tutta la morente stagione del post-comunismo, corresponsabile dell'epoca del berlusconismo, della lotta di classe all'inverso delle élites, della sussunzione del libertarismo nell'edonismo privo di responsabilità (lo stesso Jep sembra sospeso, esistentivamente, fra la tentazione dell'autosufficienza autistica e l'attenzione per l'altro), è messa qui sotto accusa ed è come incarnata metaforicamente dagli obesi rottami della Costa Concordia, in cui naufragano le passioni risorgimentali a cui rimanda l'apertura del film: il busto di Gustavo Modena, attore e patriota, combattente nel '48, critico democratico-popolare dell'unificazione moderato-cavouriana.
La notizia della morte del suo unico passato amore, Elisa, smuove in Jep il desiderio di tornare a scrivere. Come il Grande Gatsby, Jep, da quarant'anni, elebora il lutto d'esser stato lasciato dalla sua prima donna rimuovendo se stesso nello stagnante eterno ritorno dello sfrenamento mondano. E' come se Jep fosse stato lasciato anche dalla vita nel cuore di quegli anni settanta e proprio la morte lo riportasse ad essa. Ecco perciò che si avvicina a Ramona, una quarantaduenne spogliarellista che lo colpisce perchè, a differenza delle donne dei salotti che frequenta, è sincera, con se stessa e con gli altri, chiamando le cose con il loro nome. Ramona è gravemente ammalata e sta morendo e questo paradossalmente la rende più vera di tutti gli zombie – nel senso, proprio, degli zombie di Romero – che popolano le sue notti.
Il narcisismo strumentale non risparmia neppure i bambini, come nelle toccanti sequenze dell'artista prodigio coperta di colori come fosse stuprata. L'apparire mercificante riesce persino ad assorbire il messaggio religioso. La "santa" suor Maria, in visita nella Capitale e antica lettrice appassionata dell'unico libro di Jep, ha anch'essa un curatore d'immagine e un'agenda mondana, ma riesce ad operare uno scarto: Maria – che in Africa ci sta davvero a curare i malati - spiega sostanzialmente due cose: la prima è che non rilascia più interviste perchè le cose vere si "vivono" e non si "dicono"; e poi che "le radici" (di cui si nutre quotidianamente) sono "importanti". Ecco che perciò quando la suora è ospite da Jep, nella terrazza sul Colosseo, avviene come per miracolo che si raduni uno stormo di grandi uccelli, in sosta mentre stanno migrando. Jep torna fra gli scogli che lo videro per la prima volta amarsi con Elisa, decidendo infine di tornare a scrivere, perchè prima della morte c'è la vita che, sebbene a fatica, illumina a sprazzi il nulla che la fonda. Solo riprendendo contatto con il dolore e con la morte, con la capacità vera di spendersi per l'altro – sembra dirci Sorrentino, in qualche modo riecheggiando Leopardi – forse è possibile confrontarsi con il vuoto che ci assale e che in Italia è facilmente coperto da una tendenza all'estetizzazione della vita, connaturata nell'ambiente urbano, che può essere potente antidoto ma, anche, mortale assoggettante veleno.
Il suo messaggio potrebbe interpretarsi come retrivo, se si intendesse quel richiamo alle "radici" e il ritorno al paese dell'amico Romano deluso dalla Capitale, come un invito ad abbandonare le seduzioni della vita urbana per recuperare una qualche "identità" locale e folkloristica, magari ammantata di misticismo, che andrebbe proprio nel senso opposto alla prospettiva leopardiana; ma, appunto, quelle radici vanno intese come radici affondate nella verità universale della vita e della morte. Il Celine citato all'inizio è quello amato dalla beat generation: nel viaggio si sopporta la vita, in quanto impedisce al nulla di secernere la sua stagnante condensa. Le radici sono i bisogni reali e la trama di relazioni a cui ogni singolarità è aperta. Come per Leopardi, il nulla e la morte possono essere contrastati solo dal nulla e dalla morte: rimuovendoli, non c'è concesso neppure il "lampo di luce" che per un breve attimo lo rivela e che può dare senso alla vita35.