Fanon in Italia: tra terzomondismo, psichiatria e sinistra operaista

DOI : 10.56078/atlantide.1670

Résumés

Cette contribution examine la réception et la traduction des œuvres du psychiatre martiniquais Franz Fanon en Italie dans les années cinquante et soixante. Elle considère notamment la réception partielle dont a fait l’objet l’œuvre de Fanon pour des raisons éditoriales. Pendant longtemps la communication prononcée au congrès des écrivains noirs à Rome le 1er Avril 1959, parue sur Rinascita avec le titre « Nazione, cultura e lotta di liberazione » demeura le seul texte connu de l’auteur. Pourtant, en 1959, l’auteur avait déjà écrit beaucoup d’essais et participé activement aux luttes d'orientation panafricaniste et du FLN algérien. C'est Giovanni Pirelli, militant socialiste et directeur de l'Institut Morandi et dont Mariamargherita Scotti a écrit la biographie, qui, s'intéressant à la traduction de L'an V de la révolution algérienne, a contribué au retour au premier plan de Fanon.

This paper examines the reception and translation of the works of the Martinican psychiatrist Franz Fanon in Italy in the 1950s and 1960s. It considers in particular the partial reception of Fanon's work for editorial reasons. For a long time, Fanon's only known text was the paper he gave at the Congress of Black Writers in Rome on 1 April 1959, published on Rinascita under the title "Nazione, cultura e lotta di liberazione". By 1959, however, the author had already written many essays and taken an active part in the pan-Africanist and Algerian FLN struggles. It was Giovanni Pirelli, a socialist activist and director of the Morandi Institute, whose biography Mariamargherita Scotti has written, who, by taking an interest in the translation of L'an V de la révolution algérienne, contributed to Fanon's return to the forefront. The reception of his last work, Les damnees de la Terre, is considered as a milestone both for italian third-worldism and for its reception in reviews as Quaderni Piacentini

Plan

Texte intégral

L’origine di una così feroce invenzione oltrepassa i confini della erudizione, e verosimilmente potrà essere tanto antica la tortura, quanto è antico il sentimento nell’uomo di signoreggiare dispoticamente un altro uomo. (P. Verri, Osservazioni sulla tortura)

1.  note sulla prima ricezione

Quando si voglia trattare della conoscenza e dell’influenza delle opere e della figura di Frantz Fanon in Italia, come altrove e con maggior dettaglio filologico è stato fatto da Neelam Srivastava (Srivastava, 2014), occorre tenere presente la ricezione sostanzialmente rovesciata della sua opera: per lungo tempo il solo testo conosciuto, e filtrato dallo stesso apparato culturale del Partito Comunista Italiano che inzialmente marginalizzerà lo psichiatra martinicano (la storia della sua ricezione è in questo senso anche un episodio della contestazione dell’egemonia culturale del PCI a sinistra), è la relazione tenuta al congresso degli scrittori neri a Roma il 1° Aprile 1959, apparsa su Rinascita con il titolo «Nazione, cultura e lotta di liberazione» (Fanon, 1959). A quell’epoca Fanon è già un attivo sostenitore della lotta per l’indipendenza algerina, risiede a Tunisi, capitale di uno stato arabo da poco divenuto indipendente, scrive articoli per la rivista militante El Moudjahid1 nei quali si occupa di tematiche che vanno dal razzismo e i suoi effetti psicologici all’organizzazione di campagne militari, da aspetti relativi alla stratificazione della società algerina fino ai temi panarabisti che, soprattutto dopo la conferenza di Accra del 1958 e il risveglio dell’indipendentismo nelle colonie africane, assorbiranno sempre di più la totalità dell’interesse dello scrittore. In particolare, Fanon aveva pubblicato il volume di saggi L’an V de la revolution algérienne. È questo volume che collega il suo principale interprete e mediatore italiano, Giovanni Pirelli, a Fanon, come ha ben mostrato Mariamargherita Scotti nella sua Vita di Giovanni Pirelli (Scotti, 2018).

Il militante socialista responsabile dell’Istituto Morandi (Istituto di studi socialisti fondato nel 1956 per commemorare l’ex dirigente della sinistra socialista Rodolfo Morandi), dopo un lavoro nei campi profughi di rifugiati algerini nel 1959, si reca a Tunisi nel febbraio del 1961 e tramite un amico comune, il chirurgo Michel Martini, fa la conoscenza di Fanon rimanendone folgorato. I pittoreschi racconti epistolari e i manoscritti conservati nell’archivio privato di Pirelli lo ricordano come una personalità accesa da una voglia di riscatto sfociante quasi nell’odio e insieme straordinariamente schietta e acuta:

Appoggia con violenza la sua mano nera sullo scafo ghignando “bianca naturalmente”. Poi, se possedete una barca così è perché un vostro bisnonno ha venduto cento negri contro quattro fucili che dieci poveri negri corrotti hanno adoperato per procurargli altri dieci negri contro un taglio di stoffa, un altro per il filo e un altro ancora per i bottoni. Così da una parte era nato un capitalista e dall’altra erano morti 22 negri e il ventitreesimo era stato trasformato in scimmia ammaestrata. (Scotti, 2018, p. 150)2

In poche parole, era evidente a Fanon, pur non essendo un marxista ortodosso, lo stretto legame esistente tra accumulazione originaria e tratta degli schiavi; anche da ciò, non in ultima sede, derivava la sua idea di una collocazione particolare degli africani nel processo rivoluzionario e la sicurezza che gli faceva rispondere al pur volenteroso Pirelli: «Vuoi studiare la nostra rivoluzione? Falla […] ma falla a casa tua, qui non abbiamo bisogno di te.» (Scotti, 2018, p. 150).

Nonostante lo scontro iniziale si può dire che il rapporto tra i due, per quanto breve poiché Fanon morirà alla fine del 1961 di leucemia, sia tra i più fecondi scambi culturali relativi al processo di svecchiamento e ampliamento dei canoni teorici e politici della sinistra italiana (Brazzoduro, 2021, p. 266)3. Tuttavia, proprio mentre Pirelli progetta un’esaustiva raccolta di saggi teorici, in cui è evidente la curvatura pratica più che speculativa (atteggiamento che comporta la scorporazione dei volumi I dannati della terra e L’an V nella loro integrità)4, la morte dello psichiatra scompagina il progetto e il volume esce, come I dannati della terra, nella serie dei Libri bianchi Einaudi curata da Renato Solmi, nel 1962 in una veste identica all’edizione francese. Ciò ci basta, intanto, se gli interlocutori di Pirelli erano Panzieri e Solmi, a collocarlo nell’area che si andava definendo intorno ai Quaderni Rossi5.

Dal punto di vista politico e storico i tempi erano più che maturi: c’era già stata l’insurrezione di Algeri, il referendum e l’elezione di Charles De Gaulle come tentativo di soluzione politicamente autoritaria delle contraddizioni che la repressione coloniale aveva aperto nella politica francese e poi il tentato golpe di Salan e Massu, gli attentati a De Gaulle e la stessa Algeria stava per divenire indipendente. Tutto ciò naturalmente dava buon gioco a Jean-Paul Sartre, cui Fanon aveva affidato la prefazione del libro, nel presentare I dannati della terra, che in fin dei conti non sono che i protagonisti dell’Internazionale, come un libro antieuropeo: «Europei io rubo il libro d’un nemico e ne faccio un’arma per guarire l’Europa» (Sartre, 1961, p. 11) scriveva nella prefazione auspicando e forse in qualche modo anche forzando l’interpretazione dialettica insita nel lavoro dell’amico. Certo è anche in questo modo che il libro verrà letto, ad esempio da Grazia Cherchi o da Giovanni Giudici, nell’ambiente dei Quaderni Piacentini, che del resto si mostra tra i più sensibili allo scrittore martinicano, non solo grazie alla presenza e agli articoli di Paola Spazzali Forti (Spazzali Forti, 1962 e 1963). I Quaderni Piacentini ospiteranno riflessioni e commenti sulla situazione algerina, mentre alla giovane Cherchi spetterà difendere I dannati della terra dal silenzio della stampa comunista (Cerchi, 1962, p. 26-28).

Al contempo, il poeta Giovanni Giudici dedicherà all’ultima opera fanoniana una densa recensione interpretativa dal titolo L’uomo dalla roncola.

2.  Le letture dialettiche

Questo testo di Giudici, elaborato componendo marginalia a singoli passi dei saggi, è stato già studiato estesamente (Mozzachiodi, 2020). Di tale analisi, riassumeremo per sommi capi gli aspetti fondamentali: letto come un pensatore della decolonizzazione, di Fanon vengono evidenziati soprattutto gli aspetti dialettici, Giudici chiama in causa la dialettica servo-padrone della Fenomenologia dello spirito (1807) hegeliana. In particolare, nel saggio Della violenza, il clima di violenza che domina e informa i rapporti tra colonizzante e colonizzato è da Giudici visto come un possibile elemento di soggettivazione, se la violenza si converte da moto spontaneistico e ribellistico (il nero che sogna di sgozzare il bianco) a opposizione organizzata. Principale contromossa occidentale, se si esclude la repressione manu militari pura e semplice, è la creazione di una borghesia nazionale nera cui affidare le battaglie indipendentiste senza che escano dai canoni della rappresentanza, del riformismo moraleggiante e quindi in ultima analisi della gentile concessione da parte dei bianchi. In una sua nota a margine, Giudici parlerà di un «partito muro» opposto alla spontaneità rivoluzionaria delle masse. Evitare l’integrazione, il modello del buon negro civilizzato (cioè francesizzato) che accetta la propria inferiorità intrinseca nel momento in cui chiede di essere riconosciuto come parte della cultura Europea occidentale, è dunque un pericolo che Fanon avverte benissimo e anzi intorno al quale sono strutturate tutte le sue ragioni teoriche, con la seconda parte del libro dedicata a Disavventure della coscienza nazionale e Sulla cultura nazionale; tuttavia, si deve senz’altro rilevare come questa parte del suo pensiero resti, in fondo, secondaria nella lettura dei Quaderni Piacentini, tesa semmai a cercare analogie e differenze tra la situazione algerina e la situazione italiana, nella speranza da un lato di sfuggire alle secche del gramscismo comunista che sembrava necessariamente tradursi in un atteggiamento riformista, e dall’altro di rendere ragione di quella che pareva – siamo tra il 1962 e il 1963 – la consistente disponibilità di mobilitazione spontanea dell’emergente soggetto politico-economico che era la massa operaia. Scrive Giudici:

Chi è l’uomo dalla roncola? È l’uomo della dissidenza operaia? Il “gatto selvaggio” che paralizza la fabbrica senza avvertire i funzionari del sindacato e della direzione? Il cretino che decide il suo voto unicamente in base alle suggestioni di una pubblicità da dentifricio o agli ordini di un capoclientela? O salendo (ma solo in apparenza) è l’organization man ossessionato dalla carriera e dall’esaurimento nervoso? Il burocrate di Stato continuamente costretto a riformulare parole d’ordine e ridimensionare sorrisi? (Giudici, 1976, p. 165)

Nei commenti al saggio, Giudici si spinge a ipotizzare una posizione privilegiata, dal punto di vista rivoluzionario, dei popoli africani, in virtù della loro collocazione in un punto meno sviluppato del sistema capitalistico mondiale, o, se si vuole, in un contesto in cui i contrasti di classe sono più netti: «Qui Fanon va preso alla lettera, parla Africa e Africa va intesto, forse l’unico posto al mondo dove la linea privilegiata non passi ancora sottotraccia, ma scoperta, anche troppo evidentemente, tanto da rischiare di esse continuamente interrotta, intercettata dal nemico di classe.» (Giudici, 1976, p. 165).

Fatta salva la necessaria funzione universalizzante che la dialettica continua a rivestire, per Giudici e il gruppo dei Quaderni Piacentini il problema e la questione è ancora o nuovamente quello del soggetto rivoluzionario ma non della sua soggettività, ovvero detto sinteticamente: in una società globalizzata sarà il Terzo Mondo a fare la rivoluzione che deve essere fatta?

3.  Terzomondismo, operaismo e progetti editoriali

Echeggia in questa tensione qualcosa di quella che sarà l’entusiastica lettura soprattutto dell’ultimo Fanon da parte dei gruppi del ’68, che vedranno un’affinità tra le sue teorizzazioni sulla violenza e sulla funzione integrante della cultura e l’opera di Che Guevara e Mao con la guerriglia sudamericana e la Rivoluzione Culturale cinese (Brazzoduro, 2021, p. 268). Pirelli, dal canto suo, che per tutti gli anni Sessanta sarà un instancabile ricercatore e promotore del lavoro di Fanon e che nel 1962 fonderà a Milano il Centro Frantz Fanon (Scotti, 2018, p. 201-206), preferirà un approccio più cauto e documentario ma non esiterà a proporre ripetute traduzioni ad Einaudi dell’intero corpus fanoniano, a cominciare da una scelta di saggi da L’an V tradotti da Einaudi nel 1963 come Sociologia della rivoluzione Algerina. Del resto funzione prevalentemente documentaria6, critica e di informazione ha, nella mente di Pirelli che ne è il finanziatore, lo stesso centro intitolato allo psichiatra, che diverrà punto di riferimento per il terzomondismo italiano. Vi si terrà infatti proprio nel 1963 un importante convegno che vedrà la partecipazione di molti partiti e delegati africani, tra i quali l’angolano Agostinho Neto e il capoverdiano Cabral, che di Pirelli diverrà un grande amico. Vi saranno discusse le Tesi generali della lotta di emancipazione delle classi sfruttate nei paesi sottosviluppati dominati dall’imperialismo7, ma quando il centro si muoverà più chiaramente verso attività sovversive Pirelli farà un passo indietro. Tra i primi delusi però dalla curva del terzomondismo vi sono proprio quei Quaderni Rossi che grazie a Solmi e soprattutto a Panzieri erano stati ambiente di militanza attiva per Pirelli e di discussione delle tesi fanoniane. Per una parte di loro, quella che darà poi vita a Classe Operaia, lo scetticismo nei confronti di un utilizzo occidentale di Fanon è insito nei loro stessi presupposti: pur ponendosi al pari di Giudici il problema del soggetto rivoluzionario essi rispondono invocando la centralità e la primazia assoluta, fondata sulla centralità nel modo di produzione capitalistico, della classe operaia occidentale.

Tronti, principale teorico di questa linea (Milanesi, 2014)8, interpreta infatti l’indicazione marxiana della necessità del compimento dell’intero ciclo di sviluppo del capitalismo per dar vita alla possibilità rivoluzionaria come riconoscimento del fatto che solo la concentrazione di capitali e mezzi di produzione possibile in occidente genera la forza d’urto rivoluzionaria operaia e, nelle parole di Tronti, la catena del capitalismo non si romperà là dove il capitale è più debole, bensì dove la classe operaia è più forte (Tronti, 2008, p. 108-118). Non dunque certo in Algeria, dove al più le lotte rivoluzionarie potranno essere lotte liberali, cioè determinate dalla necessità di creare o rinegoziare le istituzioni politiche e i diritti di espressione e rappresentanza. Gli uomini con la roncola devono, in altre parole, percorrere lo stesso cammino che hanno percorso i nemici-alleati europei e rappresentano, inevitabilmente, un punto più arretrato nella storia rivoluzionaria, non un momento privilegiato. Su queste basi, scarsa era la possibilità di collaborazione anche nel complicato coacervo milanese: il capoluogo lombardo era in effetti a metà anni Sessanta lo scenario dove, più ancora forse che a Torino, le diverse tendenze della sinistra e Nuova Sinistra si trovavano intrecciate nelle collaborazioni editoriali e pratiche. Tuttavia, l’intesa tra il Centro Frantz Fanon e Classe Operaia è destinata, dopo qualche tentativo di sostegno economico, al fallimento (Milana & Trotta, 2008, p. 455).

Più complessa è la questione per i Quaderni Rossi, che avevano del resto uno stretto rapporto con Pirelli per via della sua gestione dell’Istituto Morandi: se inizialmente Panzieri si era entusiasmato al punto di parlare di un «momento fanoniano della psichiatria», come riferiscono sia Pirelli che Jervis, più tardi Jervis stesso ricorderà come Panzieri considerasse relativamente modesto il contributo di Fanon alla psichiatria (Scotti, 2018, p. 160)9. Dopo Sociologia della rivoluzione algerina del 1963, Pirelli cerca vanamente di far tradurre per Einaudi gli scritti di Pour la révolution africaine e tra il 1965 e il 1968, oltre a accumulare materiale per una biografia di Fanon, Pirelli si reca più volte in Tunisia e in Algeria in cerca delle carte fanoniane e tiene una fitta, anche se talora burrascosa, corrispondenza con la vedova di Fanon10 e progetta un volume di Opere scelte nell’anno 1968. Prende per questo contatti con Edoarda Masi, sinologa vicina al gruppo dei Quaderni Rossi che vi stava introducendo e mediando i problemi politici cinesi, la guerra del Vietnam e il pensiero maoista. L’idea di un nesso tra la politica asiatica e la lotta di decolonizzazione africana era evidente e in forma più schematica riprendeva lo slogan guevariano degli «uno, due, tre, mille Vietnam». Tuttavia, Masi declina gentilmente l’invito e sottolinea alcune divergenze con l’impostazione del lavoro e con la visione politica di Fanon: «Capivo che non è opportuno introdurre Fanon con quella che è sostanzialmente una critica a due terzi di Fanon […] Il giudizio su dove, in fondo, sia presente l’oppressione, su chi siano gli oppressi e perché; sulla faccenda città-campagna-popolo» (Scotti, 2018, p. 163).

Proprio con questa lente su cui la Masi manifesta i suoi dubbi Fanon era stato letto anche da chi se ne serviva per scopi più scientifici e meno direttamente politici, come l’antropologo Vittorio Lanternari che in un vasto e pionieristico lavoro, intitolato significativamente Occidente e Terzo mondo, aspirava a rendere conto, almeno in una tassonomia generica, del modo in cui l’Africa si creava nuovi modelli identitari anche in chiave oppositiva dopo il contatto con l’Occidente. I dannati della terra è letto proprio nelle pagine sul rapporto tra città e campagna:

Alligna nelle città, e ci si è sviluppata come prodotto dell’economia industriale capitalista, la burocrazia amministrativa, questa casta privilegiata, una delle principali “industrie” essa stessa dei paesi di nuova indipendenza. Legata ad essa è la borghesia degli affari: […] Essa – scrive [Fanon] a dispetto di dichiarazioni molto belle ma vuote di contenuto, maneggiando in completa irresponsabilità frasi che escono dritte dai trattati di filosofia politica o di morale dell’Europa, darà prova della sua incapacità a far trionfare un catechismo umanista minimo. Intanto – rileva questo autore con il suo linguaggio acceso – il contadino che lavora la terra, il disoccupato che non finisce mai di stare senza lavoro non arrivano, nonostante le bandiere tuttavia nuove, a convincersi che qualcosa è davvero cambiato nella loro vita. (Lanternari, 1972, p. 155-156)

Se quello che interessa a Lanternari è soprattutto indagare i mutamenti e gli aspetti di crisi delle società in un momento di cambiamento dei riferimenti culturali, parlerà infatti poi dell’alcolismo a cui questa neoborghesia africana creata ad uso e consumo del capitale si abbandona, è evidente che per Fanon essa è soprattutto agente e figura dell’oppressione materiale di soggetti che tradizionalmente la subiscono: i miserabili delle città e soprattutto i braccianti e i lavoratori di fatica dell’entroterra, i veri uomini della roncola, quelli appunto che la cercano ogni qual volta sentono nominare i valori europei che i nuovi padroni sbandierano. Scriverà Giudici:

E allora, l’uomo che al discorso “cultura occidentale” tira fuori la roncola è, indipendentemente dal color della pelle, discendente, antenato e contemporaneo del “proletario” del Manifesto che non aveva patria, religione, famiglia, le belle cose “umane” di cui la classe dominante si professava ancora accorata paladina: e non poteva riconoscerle, perciò, non poteva vederle se non appropriandosene, assurgendo a un livello umano dalla condizione sub-umana alla quale era costretto; e a quel livello umano non poteva affacciarsi se non abbattendo il signore antagonista, costringendolo a riconoscere l’uomo nel non più servo. (Giudici, 1976, p. 159)

Siamo ora in grado di comprendere meglio le ragioni della diffidenza della Masi che, parallelamente, era andata scrivendo tanto su Quaderni Rossi quanto su Quaderni Piacentini una serie di articoli che volevano definire una prospettiva internazionale di lotta anticapitalistica che superasse l’alternativa tra terzomondismo e operaismo.

Per la studiosa era centrale lo sforzo (al di là del dibattito sulla possibilità che, come si diceva allora, le campagne accerchiassero le città) di non concepire la rivoluzione come un fatto esotico, di non cedere cioè a un’idea piattamente terzomondista come alternativa alla socialdemocratizzazione del movimento operaio europeo; anche su questo Masi segna un punto di articolazione notevole:

Nei paesi sottosviluppati il sistema che va instaurandosi è capitalistico-monopolistico o oligopolistico, non si tratta di forme intermedie, pre-borghesi o proto-borghesi, né di “forme di transizione” non più capitalistiche e non ancora socialiste (per il solo fatto che si procede alla pianificazione) […]. I sottosviluppati come zone differenziate esistono in realtà solo come elemento proletario in seno all’universo capitalistico. (Masi, 1965, p. 381-382)

Si sarebbe affermata, in altre parole, con l’integrazione di tutto il globo nel modo di produzione capitalistico una divisione internazionale del lavoro (leggibile nelle bilance commerciali dei vari paesi, nelle differenziazioni delle loro economie, nella terziarizzazione delle economie occidentali, nelle delocalizzazioni produttive delle grandi aziende monopolistiche e così via) che ingenera un processo di proletarizzazione nel Terzo Mondo diverso da quello che comporta l’accumulazione originaria. Non siamo più, secondo Masi, in uno scenario quale quello ipotizzato da certo marxismo positivistico di fine Otto-inizio Novecento, come ad esempio quello della II Internazionale, che ritiene necessario per uno sbocco rivoluzionario che ogni stato abbia percorso diverse socioeconomiche e istituzionali (formazione di una borghesia, industrializzazione, riforme liberali, formazione di una massa proletaria industriale ecc.). Detto altrimenti, quel tipo di marxismo positivistico era pensabile solo all’interno del quadro storico sociale costituito dal sistema di produzione e di scambio degli Stati-nazione e degli imperi di fine Ottocento o di interdipendenza imperfetta. Per questo motivo non ha senso chiedersi se la catena capitalistica si romperà dove la classe operaia è più forte, come sostengono gli operaisti, o dove il capitalismo è più debole, come vogliono i fautori del terzomondismo11, perché l’uno e l’altro punto sono funzioni interdipendenti ed è nel consolidamento di questa interdipendenza, a prescindere dai singoli posizionamenti politici che si esprime il potere unificante del capitale. Ne consegue che:

Il solo mezzo valido per combattere il capitalismo che si pone sempre più come forza internazionale, e per non cadere nella trappola delle discriminazioni regionali, nazionali e continentali che vogliono sostituirsi alle contraddizioni di classe oscurate è la costituzione di un fronte di lotta anticapitalista internazionale. […] Sul piano politico-militare la realtà del capitalismo già si smaschera da sé: il “mondo libero” fa blocco politicamente e militarmente. Nella guerra del Vietnam non esistono realmente neutrali o moderati, all’interno del blocco capitalistico. (Masi, 1965, p. 388)

4.  La trasformazione del soggetto

A questo punto emerge quella che è a mio parere la novità che Fanon importa nel dibatto politico sulla rivoluzione in uno stadio capitalistico avanzato e, credo, anche la ragione del persistente interesse di Pirelli in un ambiente, lo si è visto, non sempre favorevole al martinicano.

Pirelli si interessa alla teoria della soggettività rivoluzionaria contenuta in Fanon. La stessa Scotti grazie a un’intervista rilasciatale da Mottura nota come l’aspetto prevalente sia per il suo studioso: «un’attenzione per il soggetto rivoluzionario come individuo, che faceva risalire al suo lavoro di psichiatra» (Scotti, 2018, p. 163). In altre parole, a Fanon e a Pirelli, non interessa solo chi fa la rivoluzione, quale gruppo sociale o storico, ma anche cosa accade nella psiche e nei comportamenti sociali di chi fa la rivoluzione, come l’attività militante cambia gli esseri umani mentre essi la svolgono e non dopo aver cambiato gli assetti di potere.

Si comprende qui la spiccata preferenza di Pirelli per la raccolta di saggi L’an V, rispetto al ben altrimenti famoso ultimo libro di Fanon: questo libro rappresenta un tentativo di psicologia sociale di una rivoluzione in atto e registra molto meglio la nuova dialettica dei rapporti sociali e culturali che la lotta rivoluzionaria produce: si pensi a un saggio come Medicina e Colonialismo, dove si fa riferimento a come gradualmente gli algerini siano passati dal rifiuto della medicina occidentale, vista come pratica dell’invasore, alla dipendenza aperta e ad un’idea quasi taumaturgica del medico bianco, fino alla appropriazione critica di quel sapere, non però per esercitarlo nelle cliniche coloniali ma per elaborare proprie forme di assistenza sanitaria (Fanon, 2007b, p. 105-123) o ancora più nettamente l’articolo L’Algeria si svela:

C’è dunque un dinamismo storico del velo, percettibile in concreto nello svolgimento della colonizzazione in Algeria. All’inizio il velo è meccanismo di resistenza, ma il suo valore per il gruppo sociale rimane altissimo. Ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche per l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria. In un secondo tempo, il mutamento avviene in occasione della rivoluzione e in circostanze precise. Nel corso dell’azione rivoluzionaria il velo viene abbandonato. Ciò che era usato per dare scacco alle offensive psicologiche o politiche dell’occupante diventa mezzo, strumento. […] L’iniziativa delle reazioni del colonizzato sfugge ai colonialisti. (Fanon, 2007b, p. 60-61)

Certo simili fatti denotavano l’emergere di una dialettica rivoluzionaria persino nell’uso della tradizione, in cui ciò che rappresentava la difesa società tradizionale (il velo ad esempio) diventa strumento di costruzione autonoma, e non imposta dal colonizzatore, di una società diversa. Si trattava di un quelle forme di plasticità culturale, cioè di capacità da parte delle culture di rinnovarsi assorbendo e risemantizzando valori esterni (qui ad esempio la laicità ma soprattutto l’eguaglianza di fronte al diritto e le idee di autogoverno e di libertà politica) di cui proprio la rivoluzione in questo caso rappresentava un potente reagente, ponendo le culture di fronte alla necessità di modificarsi per sopravvivere (in questo caso per non essere « normalizzate » nel ritratto razzista del colonizzato), come lo stesso Lanternari notava (Lanternari, 1972, p. 47)12. Tutto ciò non poteva passare inosservato all’intellettualità di sinistra che a sua volta faceva da eco alle posizioni algerine nel mondo. Lanternari stesso però sottolineava come l’impatto del capitalismo occidentale, nella maggior parte dei casi mosso da un’attitudine positivistico-razzista a considerare preesistenti culture e modelli sociali essenzialmente come stadi arretrati in una visione unidirezionale dello sviluppo al cui vertice stava il borghese europeo, aveva cancellato (ad esempio con la formazione di un’identità nazionalistica mediate l’insegnamento dei valori coloniali) gran parte delle tradizioni autoctone e, cosa più importante, con la funzionalizzazione della struttura economica e sociale della produzione delle colonie alle esigenze della madrepatria aveva prodotto in Africa miseria psicologica e materiale e quella miseria non sfuggiva al Fanon psichiatra, che così descrive il colonizzato: «È dominato, ma non addomesticato. È inferiorizzato, ma non convinto della sua inferiorità. Aspetta pazientemente che il colono allenti la sua vigilanza per saltargli addosso. […] Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventar persecutore» (Fanon, 1961, p. 42). È, insomma, fintanto che è solo colonizzato, una bestia assetata di sangue, in niente migliore dell’altra bestia che il suo sangue deve spargere per conservare un sistema che la disumanizza.

Pirelli trova dunque – siamo nel 1968 – una sponda in Giovanni Jervis, psichiatra di orientamento marxista e collaboratore dei Quaderni Rossi e dei Quaderni Piacentini che in quel momento lavorava nell’equipe medica di Franco Basaglia e si mostrava assai interessato alla ricerca di novità in campo psichiatrico. Se è pur vero che infruttuosi saranno i suoi sforzi di rintracciare i nastri dei corsi di psichiatria che Fanon tenne e parte del suo materiale medico alla clinica di Blida, al punto che Jervis riterrà ordinari e privi di interesse teorico gli scritti psichiatrici di Fanon, è pur vero che la collaborazione con Pirelli porterà a due importanti risultati: la pubblicazione di Pelle Nere, Maschere Bianche, la prima opera di Fanon, del 1952, dove il giovane psichiatra si propone di studiare la situazione psicologica del razzializzato sfruttando la psicologia adleriana. In particolare, l’utilizzo del paragone adleriano, cioè un paragone tra due soggetti costruito nel quadro di un complesso di inferiorità rispetto a un terzo soggetto percepito come superiore e fonte di norma, aiuta Fanon a spiegare le relazioni tra nero e bianco dal punto di vista del nero che non paragona se stesso al bianco, ma agli altri neri, determinando inferiorità e superiorità in base alla vicinanza ai modelli culturali e comportamentali dei francesi (Fanon, 2016). Il secondo risultato, quello che a mio parere consegna ancora oggi la parte più durevole del pensiero di Fanon, è la pubblicazione in due volumi delle Opere scelte apparsi nella Serie politica curata da Renato Solmi e, come sottolinea ancora Scotti, pensati per essere un tascabile, un agile strumento in mano ai militanti delle nuove generazioni cui si doveva sfatare il mito del Fanon teorico della violenza. La prefazione all’opera da lungo tempo preparata da Pirelli è, dopo il rifiuto della Masi, dunque di Jervis, e in essa lo psichiatra mette lucidamente a fuoco gli aspetti di novità del pensiero fanoniano: esso rappresenta «un importante contributo alla teoria marxista del soggetto rivoluzionario» (Jervis, 1977, p. 84).

Nell’interpretazione di Jervis, l’elemento che consentì a Fanon di porre sotto giusta critica le tendenze oggettivanti del marxismo ma anche di evitare almeno in parte i pericoli della propria stessa impostazione, ovvero il terzomondismo come populismo, l’esaltazione dell’attivismo e della violenza, l’analisi sociale a tratti sommaria, è proprio la sua costante posizione di “osservatore”, il prevalere dello sguardo teorico orientato alla pratica rispetto all’incalzare delle necessità poste dalla pratica stessa, e anzi da questo punto di vista la psichiatria rappresenta la cartina al tornasole di un problema più vasto.

Fanon non sfugge al problema disturbante della reale inferiorità personale, della miseria psicologica delle masse: i contadini, gli inurbati nelle bidonvilles, coloro che da generazioni si riconoscono come sudditi non sono solo persone prigioniere di tradizioni e condizionamenti reazionari e ottusi: sono individui diminuiti e sviati nelle loro stesse capacità psicologiche, per l’insufficiente alimentazione, la poca salute, ma soprattutto l’umiliazione e l’aridità quotidiana della miseria […] L’impossibilità a farsi soggetto politico, a entrare nella storia, e la sofferenza che di questa impossibilità è concausa e conseguenza non riguardano peraltro solo i contadini poveri e sottoproletari. (Jervis, 1977, p. 88)

Di una miseria delle masse che non deve essere lusingata ma corretta, diversamente dai miti classoperaistici sulla rude razza pagana, aveva parlato anche Marx, ma Fanon, secondo Jervis, si spinge ben oltre: la soggettivazione rivoluzionaria diventa anche fonte di emancipazione psicologica:

È quindi merito specifico di Fanon avere messo in luce l’importanza e il significato della concezione del mondo del colonizzato, e quindi in seguito del rivoluzionario: così come sarà merito della rivoluzione culturale aver dimostrato che questa trasformazione della visione del mondo del militante è conseguenza e al tempo stesso condizione necessaria alla lotta di classe. (Jervis, 1977, p. 90)

5.  Conclusione: tortura e rivoluzione verso e oltre gli anni settanta

Fanon è stato già utilizzato come referimento politico-teorico da alcuni movimenti e spesso riferendosi a lui si esaltava la capacità dell’odio di classe verso il colonizzatore come collante e motore politico. Ora, sia pur vero ciò, quello che emerge chiaramente dalle più avvertite letture di Fanon (e in tempi in cui su odio di classe e lotta politica non si scherzava) è che l’odio è necessario come forma di negazione, ma di per sé non soggettiva nulla: in questo senso la violenza a cui il rivoluzionario è costretto, e che lascia su di lui come sul controrivoluzionario le sue tracce (si pensi agli studi di casi clinici di torturati e torturatori che chiudono I dannati della terra) è un’ennesima forma di oppressione; la violenza è liberatoria solo se lascia intravedere il fine a cui essa mira, cioè un mondo in cui non sarà più il fondamento dei rapporti umani.

Jervis si ricorderà di questo e di Fanon in un suo scritto del 1973, Psichiatria e tortura, laddove segnala che la tortura stessa, lungi dall’essere una manifestazione di violenza irrazionale, diventa una struttura portante del nuovo potere capitalistico che si fonda su un misto di consenso e repressione sistemica nel cui quadro la tortura è soprattutto l’unificazione di due esigenze «la raccolta e l’elaborazione di informazioni e il controllo del comportamento» (Jervis, 1977, p. 106). Il saggio analizza e commenta le nuove tecniche psicologiche e psichiatriche in uso presso i servizi segreti occidentali contro i movimenti di guerriglia che includono false registrazioni di torture a compagni o familiari, disorientamento sensoriale, privazione del sonno, uso di neurolettici e sedativi o di psicostimolanti, false esecuzioni e, anche solo nei casi di arresto da parte della polizia una serie di tecniche manipolatorie a violenza latente: «1 l’ambiente va strutturato in modo da privare l’indiziato di ogni sostegno psicologico. La stanza è priva di stimoli sensoriali […] 2 Il potere latente del funzionario interrogante deve essere utilizzato […] egli deve sedere vicino all’indiziato, indossare un abito civile scuro, parlare e gestire con perfetta compostezza 3 La gravità del crimine può venire alterata […]» (Jervis, 1977, p. 108). Non sempre tuttavia la tortura è direttamente connessa a una richiesta di informazioni ed è anzi spesso utilizzata per indurre alla sottomissione; scopo della tortura moderna per Jervis è «giungere fino alla distruzione della sua [del prigioniero] immagine e coscienza di sé, cioè distruggere gradatamente ma completamente la consapevolezza che il prigioniero ha della propria personalità, della propria collocazione di militante, della propria dignità sociale, dell’autonomia stessa dei propri pensieri e della propriva volontà» (Jervis, 1977, p. 112). Cercando di dare alcune indicazioni pratiche di resistenza nel saggio ricorderà l’importanza di tre fattori: la conoscenza delle tecniche e la capacità di prevedere in maniera distaccata l’andamento degli interrogatori, la compartimentazione delle informazioni (in modo da evitare danni all’organizzazione), ma soprattutto la motivazione psicologica e morale, e quindi la coscienza di sé come militante politico e come parte di una forza destinata alla vittoria storica da cui deriva e la fermezza nel rifiutare la logica degli aguzzini. «Per chi lotta per una giusta causa, la tortura non solo è contraria ai principi stessi per cui viene condotta la lotta, ma anche in definitiva è qualcosa che non rende. L’impiego sistematico della tortura appare allora come razionalità di chi, oppresso, storicamente è perdente» scrive Jervis e anche per questo forse richiama i racconti di Fanon in I dannati della terra su combattenti che sopportano orrori rimanendo lucidi e poliziotti francesi psichicamente devastati dal loro impiego, preda di incubi e nevrosi; ma varrà anche ricordare che lo psichiatra militante, dialettica che si fa prassi, li assiste (Fanon, 1961, p. 180-191; 201-208).

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Notes

1 Ora sono raccolti nel primo volume di Scritti politici. Il riferimento per esteso è riportato in bibliografia.

2 Si tratta di un aneddoto che rielabora probabilmente in forma letteraria l’incontro tra i due del 14 febbraio 1961.

3 Per una riflessione su questi temi nel contesto dei “Global Sixties” si veda quanto ha scritto Andrea Brazzoduro : «L’ipotesi è che durante la Guerra d’indipendenza algerina l’anticolonialismo radicale cominciò a immaginarsi come un nuovo antifascismo, riconnettendosi a una memoria proattiva della Resistenza».

4 Del progetto resta traccia in una lettera a Panzieri del 6 luglio 1961 dalla Scotti rintracciata nell’archivio privato di Pirelli a Varese.

5 Lo stesso Pirelli aveva già, con mediazione di Panzieri, curato per Einaudi il libro di André Mandouze, La rivoluzione algerina nei suoi documenti (1961).

6  Di cui sono un esempio anche le ponderose Lettere della rivoluzione algerina, raccolte da Pirelli per Einaudi nel 1963.

7  Per una più accurata storia del centro si veda ora la tesi di dottorato di Tullio Ottolini (Ottolini, 2018).

8  Mario Tronti (1931-2023) si formò come filosofo politico nell’ambito del PCI, ne fuoriuscì solo formalmente per gli eventi del 1956 avvicinandosi poi a Panzieri e ai Quaderni Rossi, andando a costituire un riferimento soprattutto per i redattori attivi a Roma che, come noto, costituiranno il nerbo della scissionaria Classe operaia mentre i Quaderni Rossi saranno attivi soprattutto a Milano e Torino. Considerato uno dei teorici di spicco dell’operaismo italiano per il libro Operai e capitale, guidò la rivista Classe Operaia ed era convinto, dalla formazione delle prime lotte operaie negli anni Sessanta, di una concreta possibilità rivoluzionaria in Italia, mediata da un uso strumentale del PCI, grande partito di massa, da parte della classe Stessa. Più tardi rientrò nel PCI e divenne professore universitario, elaborando dalle prime teorie operaiste e dalla rilettura di Marx la fondamentale teoria dell’autonomia del politico. Secondo questa teoria, strutturata compiutamente nei secondi anni Settanta, esisteva una discrasia tra ciclo di valorizzazione capitalistica e ciclo di lotta politica (particolarmente attraverso l’istituto della sovranità parlamentare) che rendeva possibile sfruttare a vantaggio della classe operaia i processi di ristrutturazione sociale della produzione che il capitale doveva affrontare.

9 In riferimento a una lettera di Jervis a Pirelli del 22 dicembre 1968.

10 Dalla ricostruzione della Scotti apprendiamo che talora Josie Fanon rispondeva piccata che le lezioni del marito appartenevano a coloro ai quali erano rivolte, ovvero i combattenti e i funzionari del FLN.

11 In questo senso andrà ricordata l’opposizione di due linee fondamentali: l’una che ritiene, rileggendo filosoficamente Marx, che solo il pieno sviluppo del capitale consentirà il passaggio rivoluzionario e quindi concentra all’epoca il suo interesse principalmente su Europa e Stati Uniti, dove la concentrazione di fabbriche e attività industriali garantiva un attrito che si immaginava più diretto tra produttori e capitalisti. È la linea classica del primo operaismo italiano compendiata fin nell’articolo di Mario Tronti intitolato «Lenin in Inghilterra» che inaugura la rivista Classe operaia ma è presente anche come sostrato della nozione di operaio massa tipica di Antonio Negri. La seconda teoria, meno riconducibile a una figura specifica, si sviluppa in concomitanza con la nascita di numerosi movimenti di lotta nel Terzo Mondo e ha come puntelli teorici la teoria marxiana e leniniana della colonizzazione ma soprattutto le esperienze delle rivoluzioni cinese, cubana, vietnamita e l’idea maoista (risalente alla guerra civile) dell’assedio delle città da parte delle campagne. Secondo questa teoria la discesa in lotta di popolazioni e zone geografiche che non avevano conosciuto i governi liberali e coloniali e lo sviluppo di una forte industria e con esso di una radicata borghesia e di movimenti socialdemocratici era un fattore che immediatamente avrebbe favorito il socialismo, unico sistema peraltro in grado di garantire diritti e bisogni delle grandi masse del Terzo Mondo. In Italia questa linea oltre che dal centro intitolato a Fanon fu interpretata dai Quaderni Piacentini e dalle Edizioni Oriente.

12 Lanternari scrive: «Nasce, insomma, una sorta di “sincretismo” culturale: intendendo per “sincretismo” non una meccanica mescolanza di culture, ma un rifecondamento spontaneo della matrice nativa, al contatto con una cultura straniera. È una sintesi nuova. Nasce l’irredentismo, cioè un valore congiunto col passato tribale, ma distinto da esso, e insieme congiunto e distinto rispetto al modello europeo».

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Référence électronique

Luca Mozzachiodi, « Fanon in Italia: tra terzomondismo, psichiatria e sinistra operaista », Atlantide [En ligne], 16 | 2025, mis en ligne le 01 mars 2025, consulté le 06 juillet 2025. URL : https://atlantide.pergola-publications.fr/index.php?id=1670

Auteur

Luca Mozzachiodi

Ancien élève de l’université de Bologne, où il a obtenu un doctorat en cultures philologique et littéraires, Luca Mozzachiodi s’est également formé et a effectué ses recherches à la Fondazione per la Critica Sociale. Il est chercheur postdoctoral à l’université de Calabre dans le cadre du projet Mapping the history of subaltern literature in Southern Italy. Il a publié le volume Preparando il Sessantotto. Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra (1956-1967) (Pacini, 2024). Ses principaux intérêts de recherche portent sur l’histoire des intellectuels, la théorie de la littérature, les relations entre littérature et politique, ainsi que sur la tradition marxiste. Il a écrit pour L’Ospite Ingrato, L’Ulisse, Ticontré, Status Quaestionis et d’autres revues. Il collabore également avec Il manifesto in rete et Salute e Lavoro.

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