1. Film a episodi, coproduzioni e tratti identitari nazionali
Le più belle truffe del mondo (Les plus belles escroqueries du monde) è un film collettivo in cinque episodi ideato nel 1962, realizzato in coproduzione nel corso del 1963, e infine distribuito nelle sale cinematografiche nel 1964. Anche se non può annoverarsi tra i più significativi lungometraggi del periodo, tale opera risulta essere un esempio efficace per tratteggiare il clima di collaborazione che ha animato le relazioni cinematografiche tra Francia e Italia all’inizio degli anni Sessanta. In questo senso esso rappresenta una evidente dimostrazione di come il cinema abbia di fatto incentivato uno scambio continuo tra i due Paesi, anche in virtù di un’intesa che persiste dalla lontana epoca del muto, che formalmente si consacra nel secondo dopoguerra quando, il 29 ottobre 1946, vengono siglati a Parigi, in presenza dei rappresentanti dei rispettivi apparati cinematografici nazionali, gli accordi di coproduzione (Gili & Tassone, 1995).
A ciò si deve aggiungere la fortuna della formula a episodi che, soprattutto nell’ambito della commedia all’italiana, è riuscita a influenzare profondamente il panorama cinematografico di quella stagione definita da Gian Piero Brunetta come «un laboratorio straordinario» (Brunetta, 2003, p. 211). Questo ritorno in auge degli sketch, dopo l’ampia diffusione che si ebbe all’inizio degli anni Cinquanta, è comunemente associato al successo del film I Mostri di Dino Risi, lanciato nel 1963 e rivelatosi un catalizzatore eccezionale dell’attenzione del pubblico e delle case di produzione verso il potenziale della struttura a episodi. L’influenza esercitata dal film ha spinto numerosi registi e sceneggiatori a esplorare questo schema narrativo, dando vita a una proliferazione di produzioni cinematografiche costruite attraverso tale approccio (Rossitti, 2005).
Se da un lato questa formula a episodi tipicamente italiana ha rappresentato un terreno fertile per la creatività e la sperimentazione, consentendo agli autori di affrontare una varietà di temi attraverso storie brevi caratterizzate da toni comici e satirici, anche se non sempre in grado di sostenere il peso di un intero film (D’Amico, 1985-2021, p. 247), dall’altro veniva scelta anche per mere ragioni economiche: inseguendo una logica commerciale ben precisa, gli autori della commedia avevano iniziato a intraprendere sistematicamente una strutturazione narrativa a più racconti per ridurre ai minimi termini il rischio d’impresa legato alla realizzazione della pellicola. Per far questo, non solo si ricorreva a una pluralità di registi, ma si coinvolgevano più nomi noti al fine di – come si usa dire in gergo – “fare locandina”, confidando quindi in una maggiore capacità di attrazione (Bruni, 2001, p. 254).
Questo fenomeno non solo ha ampliato la proposta tematica, ma ha anche contribuito a consolidare il genere veicolando in modo sostanziale la produzione cinematografica degli anni Sessanta. La rapidità e l’efficacia narrativa della formula a episodi hanno infatti riscontrato un forte favore presso il pubblico, generando conseguentemente una domanda crescente che ha fatto registrare un numero significativo di film prodotti con questa struttura. Tuttavia, il costante pensiero rivolto al botteghino ha progressivamente esaurito le potenzialità di questo genere che, nella sua essenzialità, aveva dato prova di saper raccontare l’Italia in modo efficace e privo di mediazioni.
In quegli anni era dunque inevitabile che la formula a episodi venisse utilizzata anche dal meccanismo delle coproduzioni, le quali, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, incrementarono il proprio numero grazie alla «nuova e necessaria fase di internazionalizzazione del mercato» (Venturini, 2005, p. 70). Queste erano promosse col fine di creare prodotti in grado di richiamare una vasta platea di spettatori, e quindi di garantire il ritorno commerciale delle produzioni. Ne è un esempio efficace, in tal senso, il film collettivo Le più belle truffe del mondo che, come ammonisce il titolo, esplora storie di inganno e malizia che attraversano confini e culture diverse. La pellicola, che mette insieme cinque registi differenti, offre uno sguardo sulle truffe declinate e messe in atto all’interno delle varie identità nazionali coinvolte, con i segmenti del film che rappresentano capitoli unici, ambientati in una località differente del mondo, mettendo a fuoco la diversità delle tattiche e degli approcci utilizzati nel raggiro. Le varie storie sono sviluppate sfruttando stereotipi, tradizioni e peculiarità proprie di ogni contesto, laddove, nonostante le barriere culturali, le truffe emergono come lingua universale che unisce.
A prescindere dalla formula adottata, è possibile sostenere come quest’opera rientri nella tradizione del film “popolare d’autore”, richiamando in quest’ottica la politique des auteurs lanciata con successo da Les cahiers du cinéma nel decennio precedente. Un film fondativo di questa corrente – nella sua variante a episodi – può senz’altro essere rappresentato da I sette peccati capitali (1952), coproduzione italo-francese che coinvolge Eduardo De Filippo, Roberto Rossellini, Yves Allégret, Claude Autant-Lara, Jean Dréville, Georges Lacombe e Carlo Rim (che fu un insuccesso in sala e non apprezzato dalla critica cinematografica). Un altro caso eclatante, ad esempio, può essere considerato L'amore in città, opera del 1953 diretta da Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi e Cesare Zavattini. Questo film, in particolare, è utile per ragionare sul senso unitario dell’opera episodica, riscontrabile soprattutto in quei legami sintattici che possono essere tematici, narrativi (la cornice) oppure musicali (in L’amore in città la colonna musicale è interamente firmata da Mario Nascimbene). Si possono quindi rammentare anche L’amore a vent’anni (1962), con le regie di François Truffaut, Andrzej Wajda, Shintarō Ishihara, Marcel Ophüls, Renzo Rossellini; dello stesso anno Boccaccio ’70 (Vittorio De Sica, Federico Fellini, Mario Monicelli, Luchino Visconti) e poi Paris vu par... (1965) a cui contribuiscono Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jean Douchet, Jean-Daniel Pollet, Éric Rohmer e Jean Rouch. La formula del film a episodi, impreziosito dalle firme d’autore e al contempo destinato a un vasto pubblico, giunge fino alle pratiche produttive degli ultimi decenni, basti pensare a 11 settembre 2001 (2002), Four Rooms (1995), Eros (2004).
Nonostante la fortuna incontrata, occorre riscontrare come questo tipo di formula presenti non trascurabili problemi di ricezione critica, soprattutto nella definizione dell’oggetto di apprezzamento: di fatto, il film non assume mai lo statuto di opera unitaria, ma piuttosto quello di antologia di cortometraggi, per cui sia la critica coeva sia la storiografia hanno spesso isolato l’episodio singolo come oggetto di pertinenza dell’autore, come accaduto nell’esemplificativo caso de La ricotta di Pier Paolo Pasolini estratto da Ro.Go.Pa.G., analizzato come oggetto a sè stante (Venzi, 2021).
2. La collaborazione tra francia e italia per un lungometraggio a dieci mani
Il progetto de Le più belle truffe del mondo nasce in Francia, promosso dal poliedrico produttore Pierre Roustang, anche sceneggiatore e regista, il quale per le truffe del suo film pensa di ispirarsi a fatti realmente accaduti. In un’intervista rilasciata al quotidiano francese Combat ha dichiarato: «avant de sélectionner les cinq faits divers réels qui servent de base aux scénarios, nous avons examiné des centaines d’escroqueries. L’imagination dont font preuve les auteurs est stupéfiante» (Quinson, 1963)1. Non è un caso che il film, nella versione francese, si apra con un cartello alquanto emblematico: «Ces histoires sont authentiques. Toute ressemblance avec des événements ou des personnages ayant existé n’est pas fortuite»2.
Prima di individuare i soggetti e le ambientazioni, Roustang si mette alla ricerca dei possibili registi da coinvolgere nel progetto. In primo luogo, si assicura la partecipazione di due emergenti cineasti suoi connazionali, Claude Chabrol e Jean-Luc Godard, i quali vengono incaricati di occuparsi della trasposizione di due truffe rispettivamente ambientate a Parigi e a Marrakech. Dato che nelle intenzioni dell’opera il tema della truffa avrebbe dovuto essere affrontato su scala internazionale, è del tutto naturale cercare in prima battuta il coinvolgimento dell’Italia. A determinarlo è lo stesso Godard, il quale nel maggio del 1962 aveva fatto la conoscenza di Ugo Gregoretti, fattosi apprezzare per i suoi lavori televisivi come il documentario La Sicilia del Gattopardo (1960) o la rubrica sul costume Controfagotto (1961), incaricato da Roberto Rossellini di presentare alla prima edizione della “Semaine de la critique” I nuovi angeli (1962), opera prima del giovane regista romano3. La rapida conoscenza che l’autore francese fece di Gregoretti lo indusse nel luglio di quell’anno a indirizzare al collega italiano il seguente telegramma: «Cher ami je tourne un sketch pour un producteur qui admire beacoup J nuovi angeli STOP nous serions tres desireux tous les deux que vous fassiez un autre sketch de ce film consacre aux plus belles escroqueries dans le monde STOP veuillez me dire si le projet vous interesse amities»4. Questo documento, emerso dallo spoglio delle carte conservate presso il Centro Studi Ugo Gregoretti di Pontelandolfo, è emblematico della dinamica che ha determinato il coinvolgimento italiano all’interno del progetto.
Successivamente, oltre a Gregoretti, viene sondata la disponibilità del giovane talento polacco Roman Polanski, per la prima volta alle prese con una regia realizzata fuori dalla Polonia comunista, per girare un episodio ambientato ad Amsterdam5. Infine, per ciò che concerne il caso giapponese, la designazione del regista rimane a lungo in sospeso, tanto che prima del maggio 1963, con le riprese di alcuni episodi già iniziate, non c’è ancora traccia di un nome. La scelta per la truffa ordita a Tokyo ricade infine su Horimichi Horikawa, noto soprattutto per la sua attività di assistente di regia in numerosi film del noto regista Akira Kurosawa.
Parallelamente al completamento del casellario di argomenti, registi e città, Roustang si attiva anche per reperire i fondi necessari alla realizzazione dell’opera. Credendo nella buona riuscita del film, probabilmente anche grazie alla presenza di registi in ascesa su cui da tempo si era concentrata l’attenzione della critica, le case di produzione dei vari paesi coinvolti, eccezion fatta per il Marocco, confluiscono rapidamente nell’operazione. Appurata la presenza di Gregoretti, si consolida subito l’asse Parigi-Roma, favorito anche dagli accordi di coproduzione vigenti, con l’ingresso della Vides Cinematografica di Franco Cristaldi. Attraverso un accordo di coproduzione “normale”, esplicato nel rispettivo rapporto 80-20, questi due blocchi, come attestano anche i documenti burocratici contenuti presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, rappresentano i due maggiori soggetti finanziatori del film, dando quindi luogo ad una coproduzione a tutti gli effetti italo-francese6. Altre due case di produzione transalpine contribuiscono finanziare il film: oltre alla Ulysse Productions di Roustang, sono coinvolte la Lux C.C.F. di Parigi e la Primex Films di Marsiglia. Il progetto però, sia per la variegata ambientazione degli episodi, sia per la diversa provenienza dei registi, include la partecipazione di altri enti produttivi. D’altronde una pellicola con tali premesse non poteva non godere di un appoggio transnazionale. Si aggregano, quindi, la consociata giapponese Towa-Toho di Tokyo, e, a concludere il quadro, la olandese Caesar Film Productie, a dimostrazione di come l’articolato meccanismo delle coproduzioni – in questo caso in misura davvero eccezionale – potesse essere in grado di legare e mettere insieme anche le più disparate realtà (Cosulich, 1963, p. 49-52).
I cinque episodi raccontano di truffe molto differenti fra loro, anche perché sono calate nei luoghi in cui sono rappresentate. Trattandosi di cinque sensibilità diverse, emergono difformità sia dal punto di vista tematico rispetto allo stile di regia. In ogni caso, il fil rouge che lega le intenzioni dei cinque autori è soltanto quello di raccontare, senza filtri moralistici di alcun tipo, la truffa, in special modo quando essa viene elevata ad arte, ponendo al centro del racconto la maestria e l’estrosità del gesto, che quando non ha risvolti grotteschi, sfocia direttamente nell’assurdo. Viene da osservare, inoltre, come il tema della truffa declinato nel senso della destrezza e della creatività sia in fin dei conti un argomento che crea delle suggestive analogie con il dispositivo cinematografico, sia nella sua dimensione artistica, sia produttiva; Martin Scorsese definisce infatti «smuggler» (contrabbandiere) il regista che lavora nel sistema hollywoodiano utilizzando a proprio vantaggio i meccanismi produttivi, facendo passare idee non convenzionali all’intero di formule narrative convenzionali7.
3. Lo sketch italiano: “il foglio di via” di Ugo Gregoretti
L’episodio diretto da Gregoretti, intitolato Il foglio di via (Le feuille de route), racconta la storia di Rosetta, una prostituta interpretata da Gabriella Giorgelli, che viene allontanata da Napoli con il foglio di via, un dispositivo legale che obbliga al confino il destinatario, reo di condotte socialmente pericolose8. Rientrata in città furtivamente, riesce a regolare la propria posizione attraverso uno stratagemma congegnato da uno studente di giurisprudenza suo cliente e successivamente messo in atto con l’aiuto del protettore Giuseppone, intenzionato esclusivamente al profitto. Per aggirare il foglio di via, quindi, la ragazza convola a nozze con un anziano dell’ospizio comunale al fine di acquisirne la residenza. Questi, però, non ha ancora raggiunto la pace dei sensi e, vedendosi trascurato dalla donna, decide di denunciare il falso matrimonio.
È la cronaca del tempo ad offrire l’ispirazione per la realizzazione del soggetto, ispirato a fatti realmente accaduti. In un’intervista Gregoretti rivela che questo episodio era stato inizialmente pensato per una delle puntate della rubrica Controfagotto, ma a causa della materia al tempo ritenuta scandalosa fu scartato nel 1963. L’argomento, oltre ad essere di grande interesse sociale, è intimamente legato a questioni giurisprudenziali che riguardano da vicino l’Italia di quegli anni. La violazione legale del foglio di via, che obbligava a lasciare il territorio comunale, era una pratica diffusa, soprattutto da parte di ragazze costrette dalla vita a intraprendere la via del marciapiede. In questo caso il trucco era piuttosto semplice: convincere in cambio di una somma di denaro un uomo anziano a prenderle in spose; una volta celebrato il matrimonio si ristabiliva agli occhi della legge la regolarità della propria posizione. Estremamente rappresentativo del clima di intolleranza nei confronti di certi temi è il visto della censura italiana che, pur approvando il film, si esprimeva in tal modo: «La Commissione, a maggioranza, stabilisce che la visione del film debba essere vietata ai minori degli anni 18, avendo particolare riguardo al 4 episodio che ha per oggetto la “truffa a Napoli”. Le sequenze contengono scene erotiche, indulgono a comportamenti amorali, contengono battute volgari che influiscono negativamente sulla particolare sensibilità dei minori»9.
Per realizzare l’episodio viene scelto come luogo di riprese il gerocomio napoletano del Rione Carità. Vengono così ritratti i tanti anziani che vi risiedono, sopraffatti dalla vita, le cui storie sono drammatiche e dolorose; ma su questi aspetti l’obiettivo del regista indugia solo rapidamente, pur non risparmiandosi efficaci ed autentici primi piani su quei volti consumati dal tempo e dall’età. Non manca comunque il calore umano del regista, il quale prende parte al film come attore interpretando un buffo sacerdote intento ad allietare i pomeriggi dei poveri vecchietti attraverso alcuni spettacolini improvvisati insieme ai ragazzi dell’oratorio. Lo stesso cineasta è protagonista di un esilarante sketch nel quale cerca di guidare i giovani e goffi attori arruolati colpendoli sulle scarpe a suon di pugni.
Oltre a questo ritratto insieme affettuoso e ironico di costume, come è nella sua natura di autore, Gregoretti – anche per via della durata ridotta che si conviene agli sketch – preferisce concentrarsi sulla vicenda personale della prostituta, cercando di elaborare un’arguta satira su un diffuso e alquanto deteriore costume del tempo. Questo tipo di approccio ha tuttavia indotto i critici ad osservare come la storia risulti epidermica e perda l’occasione di approfondire la triste condizione delle principali vittime di questo raggiro, ovvero i tanti vegliardi che avevano finito di popolare decine di ospizi. A tal proposito, Vittorio Ciuffa ha osservato: «la macchina da presa di Gregoretti è costretta a sfiorare superficialmente e frettolosamente questi episodi, questi ambienti: il pubblico vuole la storia piccante delle donnine allegre, vuole la straripante grazia anatomica della Giorgelli. E paga fior di quattrini per andare al cinema, per far guadagnare centinaia di milioni a dive e produttori. Cosa gli importa dei poveri vecchi malati, disperati, del Rione Carità?» (Ciuffa, 1963). Questo punto è, invece, utile per osservare come Gregoretti, nella caratterizzazione del proprio episodio ambientato a Napoli, preferisca non nascondersi dietro i facili stereotipi del costume partenopeo, ma scelga un tema attuale e scomodo, lasciando sospesa una delicata questione sociale, e raccogliendo l’occasione di tratteggiare un costume che, a suo modo, si è esplicato a tutti gli effetti nei termini canonici della truffa.
Osservando più in profondità l’episodio, si può inoltre notare come Gregoretti porti all’interno del proprio sketch tutta l’esperienza maturata in qualità di autore televisivo. Adottando una chiave interpretativa basata sul modello dell’inchiesta, non dissimile peraltro da quella evidenziata nell’opera d’esordio I nuovi angeli, il regista mette in mostra le qualità di osservatore del costume e della realtà del suo tempo. In questo senso, l’esperienza nel giornalismo televisivo non si pone in contraddizione con la pratica cinematografica: sin dal principio della sua carriera, esplicatasi nei confini ridotti del piccolo schermo, Gregoretti mostra una spiccata predilezione per il linguaggio del cinema. Ciò è quanto mai evidente nei numerosi servizi degli anni Cinquanta (si pensi alla rubrica Semaforo del 1955), caratterizzati da un ampio uso di macchine da presa, dalla preferenza per ambienti esterni, da movimenti, inquadrature e situazioni legate squisitamente alla prassi filmica. Per tale ragione, l’episodio conferma come il suo peculiare stile di regia tenda a elaborare una continuità di discorso tra il linguaggio cinematografico e televisivo, quasi a voler dimostrare come non esista, in fondo, un divario insanabile tra queste due forme espressive.
4. Due mani in meno. l’estromissione di Godard (e delle scene di collegamento)
I restanti episodi del film affrontano vicende disparate e calate nei vari contesti nazionali. L’episodio giapponese racconta di una cameriera (Mie Hama) che fa la conoscenza di un facoltoso musicista (Ken Mitsuda), al quale sottrae una dentiera d’oro, per poi scoprire che la stessa non vale nulla. Il segmento di Polanski ambientato ad Amsterdam mette in scena il furto di una favolosa collana di diamanti, magistralmente orchestrato da una ladra fuoriclasse (Nicole Karen). Claude Chabrol ricorre a un vero episodio di cronaca per mostrare le gesta di un giovane truffatore parigino (Jean-Pierre Cassel) abile nel vendere fittiziamente la Torre Eiffel al ricco e credulone affarista tedesco Umlaupt (Francis Blanche). Godard, infine, ambienta a Marrakech la vicenda di una reporter di cinéma-vérité (Jean Seberg) che si mette sulle tracce di un arabo (Charles Denner) il quale distribuisce denaro ai poveri in gran quantità, per poi scoprire che sono solo biglietti falsi.
Terminate le riprese ed effettuato il montaggio degli episodi, non resta che avviare la distribuzione della pellicola nelle sale cinematografiche dei vari Paesi. Poco prima dell’uscita del film, con un colpo di scena, la produzione – probabilmente nella persona di Roustang – decide di tagliare l’episodio di Godard. Le ragioni di tale estromissione non sono mai state ufficialmente chiarite, ma è probabile che l’episodio sia stato reputato troppo difficile per i gusti di un pubblico in cerca di divertimento. Ha successivamente spiegato il regista francese: «È uno sketch che mi piace molto anche se non è uscito. Si tratta di un film puramente teorico ed è per questo forse che ai distributori non è piaciuto. […] L'ho fatto perché il pubblico riflettesse sul cinema, sulla verità: qualcosa più vicino a delle riflessioni filosofiche: spesso la filosofia vuole provare certe cose, poi ci sono dei momenti in cui essa non vuole provare nulla, vuole semplicemente parlare delle cose» (Mancini, 1969, p. 91). Anche in Italia le cose non vanno diversamente: l’edizione curata da Leo Benvenuti non include il segmento di Godard, del quale, infatti, non è mai stato editato il doppiaggio. Di fatto colui che era stato tra gli animatori del progetto, e aveva favorito l’inclusione di Gregoretti e dell’Italia, si vede improvvisamente estromesso dal film (Gili & Tassone, 1995, p. 108).
Significativa è risultata la ricerca nel catalogo degli Archives Françaises du Film del Centre National du Cinéma (CNC), che di questo film restituisce due risultati: il primo fa riferimento alla versione mutila dell’episodio di Godard, l’altro a quella integrale. In questo secondo caso la scheda offre informazioni utili per ricostruire, in parte, la dinamica realizzativa del film. Sotto la voce “Observations” è riportato: «Cette version est la version complète incluant le sketch de Jean-Luc Godard Le Grand Escroc ainsi que les scènes de liaison, écartés du film lors de sa sortie en salles, l'oeuvre ayant été considérée comme trop longue. La version “courte” qui ne comporte que quatre sketches est également déposée au CNC»10. Se l’episodio di Godard è stato successivamente recuperato e reintegrato nelle recenti edizioni del film, non si hanno invece notizie delle scene di collegamento cui si fa menzione11. Pur restando ignota la paternità, è possibile riscoprirne almeno il contenuto: «Des inspecteurs de police attendent un faux-monnayeur dans un bateau échoué qui est aussi son atelier. Pour passer le temps, ils se racontent des histoires: ce sera cinq escroqueries qui ont eu lieu dans différents coins du globe. Le soir venant, les inspecteurs se rendent compte qu'ils ont été pris dans un traquenard, la marée est montée et ils se retrouvent en pleine mer.»12.
5. Un bilancio critico
Circolato, dunque, senza le scene di collegamento e senza l’episodio di Godard, il film ha una accoglienza molto severa, sia in Francia che in Italia. Viene risparmiato solamente il segmento di Polanski, che in qualche modo è visto come una ulteriore conferma del talento di un regista destinato a far parlare molto di sé, a conferma dell’autonomia episodica all’interno del film “antologico”, che si traduce in un discorso critico fortemente “selettivo”. Recensendo il film per Les Cahiers du Cinéma, Jacques Bontemps liquida con un paio di righe gli episodi di Gregoretti e Horikawa13: «Les deux plus minables entourloupettes du monde filmées avec une déperdition d'énergie qui se solde par la même nullité.»14 (Bontemps, 1964). Ancor più violento Claude-Jean Philippe su Telerama: «Les sketches japonais et napolitain sont d'une pauvreté insigne. Ce dernier est de surcroît ignoble.»15 (Philippe, 1964). Ma non tutti si pongono in termini così critici e distruttivi. Di ben altro avviso, ad esempio, è il noto critico di Liberation Jeander, il quale intravede nello sketch italiano un grande potenziale: «Ce sketch de Ugo Gregoretti aurait pu être le point de départ d’un de ces films italiens mordants, voìre agressifs, de la veine des Monstres ou de Seduite et abandonnée. Le personnage du client adolescent rangé et pieux est cependant assez pittoresque pour mettre dans ce sketch une note assez subtile»16 (Jeander, 1964). La fredda accoglienza del pubblico francese nei confronti dell’episodio italiano è probabilmente imputabile anche a dei banali problemi tecnici, come fa osservare Roger Tailleur: «Ce sketch, comme le japonais, souffre beaucoup d’un doublage platement “égalisateur”.»17 (Tailleur, 1964).
In Italia, invece, è Morando Morandini sulle colonne di Bianco e Nero a usare la mano pesante nei confronti del connazionale, puntando il dito ancora una volta contro la provenienza televisiva:
Quel che contestiamo sono le qualità registiche di Gregoretti, il suo gusto, la sua cultura. Come la parziale riuscita de I nuovi angeli e dell’episodio di Rogopag dimostrano, i suoi sono i limiti di un vivace giornalismo televisivo, quando non è sostenuto dall’immediatezza di un cronachismo più o meno ricostruito, l’incapacità di trovare un linguaggio, la mancanza di lucidità, la pesantezza dell’approccio, il cinismo romanesco della sua complicità con la materia narrativa diventano palesi (Morandini, 1965, p. 77)
In conclusione, vale la pena oggi riconsiderare l’impresa legata a questo film collettivo perché la vicenda produttiva, ad uno sguardo più approfondito, rivela dinamiche inedite riguardanti la vita dell’opera cinematografica, dal momento della concezione al suo arrivo in sala. Questo processo mette in luce come la formula adottata mirasse a coinvolgere un vasto pubblico attraverso la creazione di un modello competitivo a livello internazionale in grado di sfidare il predominio esercitato sul mercato dal cinema americano: si lavorava in direzione di una proposta alternativa, valida e attrattiva che, almeno sulla carta, potesse proporre contenuti dal taglio autoriale e con un appeal globale. Il lungometraggio, quindi, rappresenta efficacemente le potenzialità dell’articolato meccanismo delle coproduzioni, un fenomeno che, in quel periodo, ha contribuito non solo a rafforzare i rapporti culturali tra Francia e Italia, ma ha anche favorito la cooperazione tra paesi e realtà geograficamente molto distanti. Le coproduzioni hanno permesso di superare i limiti imposti dalle produzioni nazionali, aprendo nuove possibilità creative e distributive. Questa sinergia ha portato alla realizzazione di opere che riflettono una ricchezza di influenze culturali e stilistiche, offrendo al pubblico esperienze cinematografiche variegate e innovative.
Inoltre, il film merita attenzione per la modalità attraverso cui ha coinvolto autori riconosciuti all’interno di un’opera che, nelle intenzioni produttive, era destinata al largo consumo popolare. Tale coinvolgimento non solo ha contribuito a elevare il profilo del film, ma ha anche dimostrato come fosse possibile coniugare la qualità artistica di un’opera alle esigenze commerciali. Nonostante la struttura a episodi, Le più belle truffe del mondo può in tal senso essere considerato come un film popolare d’autore. Questo approccio ha evidenziato come la dicotomia tra cinema d’autore e cinema commerciale non sia necessariamente insormontabile, ma che può esistere un terreno comune dove entrambe le dimensioni possono arricchirsi reciprocamente. Un esempio parallelo può essere trovato nel già citato lungometraggio a episodi Ro.Go.Pa.G., una coproduzione che vede insieme Godard e Gregoretti, seppur con esiti nel complesso decisamente differenti. Se quest’ultimo film esplora argomenti più sperimentali e provocatori, Le più belle truffe del mondo mantiene un tono più accessibile e leggero, dimostrando la versatilità dei registi coinvolti e la loro capacità di adattarsi a diverse forme narrative. La struttura a episodi tende, in molti casi, a facilitare l’integrazione di stili e visioni diverse, esplora una varietà di tematiche in modo coerente e organico e contribuisce alla creazione di un mosaico narrativo in grado di rispecchiare con graffiante efficacia la complessità della realtà contemporanea.
Pertanto, rileggere oggi le vicende legate a quest’opera significa, da un lato, riconoscere l’importanza che la cooperazione internazionale ha avuto in ambito cinematografico, soprattutto in quei momenti storici dove la propensione di aggregare risorse e talenti da diverse parti del mondo era piuttosto elevata; dall’altro, tornare a riflettere senza pregiudizi su tutte quelle pratiche produttive finalizzate a conciliare l’intrattenimento popolare con la creazione di un’espressione artistica.