1. La fortunosa scoperta ad Atene di una storia della guerra tra Greci e Troiani scritta di proprio pugno da un testimone d’eccezione, Darete Frigio, che visse e combatté in quella guerra tra le fila dei Troiani1. La volontà di tradurre in lingua latina questo resoconto autoptico per offrire ai lettori una versione dei fatti più attendibile di quella di Omero. Sono queste le notizie desunte dalla lettera premessa al De excidio Troiae historia2 dall’autore della lettera stessa, che si attribuisce, oltre al nome di Cornelio Nepote, anche la paternità di questa versione latina redatta probabilmente verso il V secolo d.C.3. Si tratta di un’opera che si inserisce in un filone assai ricco in età imperiale, di cui fanno parte anche l’Eroico di Filostrato, il Discorso troiano di Dione Cassio o l’Efemeride di Ditti Cretese, che trovano un minimo comune denominatore nell’intento di “riscrivere” e, soprattutto, retti- ficare la tradizione omerica minandone l’autorevolezza. Per quel che concerne specificamente Darete, egli offre un resoconto completo della guerra, dall’avvio delle ostilità sino alla caduta di Troia, premettendo alla narrazione degli eventi bellici stricto sensu un ampio antefatto che dallo sbarco degli Argonauti giunge sino al precedente immediato del conflitto, il rapimento di Elena da parte di Paride, individuato sin dai poemi omerici come casus belli.
Come è noto, in quei poemi, in linea con i valori condivisi dalla società greca arcaica, la colpa di Paride consisteva, in primo luogo, nella violazione dei vincoli di ospitalità. Accolto benevolmente dal re di Sparta nella sua dimora, egli ne aveva tradito la fiducia seducendone la sposa4. La mancanza di lealtà e l’ingratitudine del Frigio si colorano di tinte ancora più forti nella versione riportata dai Cypria5, secondo la quale Menelao, costretto a lasciare Sparta prima della partenza dell’ospite, ne aveva affidato la cura alla moglie: più deprecabile risulta, pertanto, il tradimento di tanta generosità da parte del figlio di Priamo che, con l’aiuto di Afrodite, aveva approfittato dell’occasione propizia per sedurre la sposa del suo ospite e in- durla a partire insieme a lui. Il ratto di Elena, pertanto, equivale, oltre e più ancora che a un affronto personale, a un vero e proprio attacco al prestigio sociale del re di Sparta, gra- vemente minato dalla mancanza di rispetto dell’ospite. Ne consegue – come viene acuta- mente messo in rilievo da Carlo Brillante6 – la necessità di ristabilire l’equilibrio violato, risarcendo Menelao dell’onore perduto o mediante la punizione del “traditore” o, perlo- meno, con la restituzione della sposa7. All’origine della guerra di Troia vi è, dunque, un con- trasto che vede contrapposti colui che ha subito e colui che ha recato l’offesa e individua, senza ombra di dubbio, il responsabile nel figlio di Priamo e la parte lesa in Menelao.
Da questa situazione cristallizzatasi nella tradizione letteraria deve, dunque, prendere le mosse l’autore del De excidio Troiae historia per la sua ri-scrittura orientata a sostenere la difesa di Paride e, attraverso lui, dei Troiani sulla base di una conoscenza autoptica garantita dalla partecipazione diretta al conflitto bellico8. Il compito si prospetta alquanto arduo e necessita di una raffinata tecnica argomentativa. Lo scontro tra le parti, prima e più ancora che sul campo di battaglia, sembra, in effetti, giocarsi nell’agone retorico. Del fragore delle armi giunge solo un’eco lontana: il teatro della storia si trasferisce dalla piana di Troia alle aule di un tribunale fittizio in cui la vittoria e la sconfitta delle parti in causa non sono decretate dall’areté degli eroi omerici che rifulge sul campo di battaglia, ma dall’abilità dell’autore della riscrittura nell’applicare e utilizzare con finezza e perizia le armi della retorica9. Il duello tra gli schieramenti contrapposti si gioca in punta di penna e si fonda sulla determinazione di quella che in ambito retorico viene definita la questione principale alla base della disputa, sulla cui prova si fonda l’intera causa, ovvero lo status causae10. All’individuazione del nucleo concettuale intorno al quale si avvita la contesa, ovvero l’offesa recata da Paride a Menelao con il rapimento di Elena, segue, dunque, l’elaborazione delle linee di difesa più coerenti con l’oggetto della questione su cui si produce lo scontro tra le parti. Nello specifico, Darete, intenzionato a sostenere e difendere le ragioni di Paride rispetto ad una tradizione che lo individua senza ombra di dubbio come responsabile del casus belli, non può che inquadrare la questione nello status causae denominato dai retori status qualitatis, in quanto ad essere oggetto di riflessione è quella che tecnicamente viene definita la qualità del fatto11.
Il problema non verte, infatti, sull’identificazione del responsabile del fatto commesso (Paride non può negare di essere stato lui a rapire Elena e a condurla con sé a Troia), ma ri- guarda la determinazione (o meno) della sua liceità (an iure fecerit), in quanto chi lo ha com- messo non riconosce che la sua azione sia passibile di pena (vedi Mar. Victor. rhet. 190, 41 Halm: feci et sic vocatur, sed iure feci).
Più specificamente, ci si muove nell’ambito della qualitas iuridicialis, applicabile alle cause in cui occorre accertare se il fatto in questione sia stato compiuto iure an iniuria12. Se, poi, per la dimostrazione della legittimità dell’azione commessa dall’imputato, è necessario fare ricorso ad elementi esterni utili a discolparlo o, perlomeno, ad attenuarne la pena, allora – ed è il nostro caso – la causa rientra nella qualitas iuridicialis adsumptiva13 e nelle quattro parti che la costituiscono14.
In particolare, nella reinterpretazione degli eventi resa da Darete, l’azione di Paride può essere legittimata mediante il ricorso alla relatio o translatio criminis, che viene applicata quando l’accusato ammette il crimine ma sostiene di averlo commesso a ragione, perché provocato ingiustamente da altri (Mar. Victor. rhet. 191, 9 Halm: ‘feci quidem, sed ut facerem, ante provocatus sum’, id est ‘feci, sed meruit’), ovvero proprio dalla parte lesa che intenta l’ac- cusa15. Il caso canonico citato dai retori come exemplum di questa catena di azione-reazione è quello del matricidio di Oreste, la cui responsabilità viene “traslata” dal reo sulla vittima, Clitemnestra, colpevole a sua volta di aver innescato la catena di omicidi familiari con l’uc- cisione del marito Agamennone, padre dello stesso Oreste16.
Difatti, nella riscrittura del poema omerico realizzata da Darete, il rapimento di Elena da parte di Paride, lungi dal costituire un’offesa alla casa di Menelao e, in generale, ai Greci tutti, si configura come legittima azione di risarcimento per una iniuria precedentemente commessa proprio dai Greci ai danni dei Troiani nell’epoca immediatamente successiva alla spedizione degli Argonauti. Racconta Darete che, in occasione dell’approdo della nave Argo nel porto di Simoenta, il re Laomedonte aveva intimato agli Argonauti di allontanarsi dalle sue terre17. Una volta conquistato il vello d’oro, Ercole, richiamati alcuni degli eroi che ave- vano preso parte alla spedizione (Castore, Polluce, Telamone, Peleo, Nestore), aveva dunque armato la flotta e fatto ritorno in Frigia per vendicare l’oltraggio subito. Ilio venne così at- taccata, sconfitta e saccheggiata, il re Laomedonte trovò la morte in battaglia per mano dello stesso Ercole ed Esione, figlia di Laomedonte, fu da questi donata come preda di guerra a Telamone per ricompensarlo del suo valore18. Toccò a Priamo, figlio di Laomedonte, divenuto a sua volta sovrano di Ilio, chiedere soddisfazione ai Greci dell’oltraggio subito con il rapimento di Esione, esigendone la restituzione19. Ma all’iniuria arrecata ai Troiani con il raptus di Esione si aggiunsero ulteriori torti: unanimemente oltraggioso fu – a detta di Darete – il rifiuto opposto da Peleo, Telamone, Castore, Polluce e Nestore alla richiesta di Antenore inviato da Priamo in Grecia come ambasciatore nonché, in generale, il trattamento riservato all’ambasciatore stesso, come si rileva dalla ricorrenza di termini afferenti alla sfera semantica dell’iniuria e della contumelia20. Fu al seguito di questa ulteriore provocazione che venne, in- fine, deciso da Priamo di allestire una flotta e affidarne il comando al figlio Alessandro (è questo l’altro nome attribuito nella tradizione a Paride e che prevale largamente in Darete), con l’ordine di recarsi in primo luogo a Sparta per incontrare Castore e Polluce e chiedere la restituzione di Esione e la riparazione dei torti subiti dai Troiani. In caso di rifiuto, ine- vitabile sarebbe stato da parte di Priamo l’invio in Grecia di un esercito21.
Si comprende come, inquadrato in questa sequenza di iniuriae, rappresaglie e richieste di soddisfazione22, il rapimento da parte di Alessandro-Paride della sposa di Menelao, piuttosto che essere considerato un oltraggio, si configuri come un legittimo risarcimento23: in altri termini, la rilettura daretiana degli eventi che costituiscono l’antefatto della guerra di Troia consentirebbe di impiantare la difesa del figlio di Priamo e, in generale, dei Troiani, avva- lendosi delle risorse argomentative della relatio criminis. Non solo. L’attribuzione della culpa ai Greci o ai Troiani sembrerebbe suscettibile di una ulteriore reinterpretazione alla luce di quella che nella pragmatica della comunicazione viene definita la “punteggiatura di una sequenza di eventi”. Secondo questo presupposto teorico della comunicazione, una sequenza ininterrotta di scambi comunicativi viene organizzata introducendo una vera e propria pun- teggiatura in base alla quale si può definire ciò che è causa di un comportamento e ciò che ne è effetto. Risulta evidente che, in caso di discrepanza tra i modi “soggettivi” di punteggiare una sequenza di eventi, si possono generare dei conflitti di relazione tra ciò che si considera la causa e ciò che si considera l’effetto: è quanto sembra verificarsi, appunto, nell’attribuzione ai Greci o ai Troiani della responsabilità di aver innescato la catena di rapimenti considerati il casus belli, come pure nell’individuazione della causa prima degli eventi luttuosi, culminati con il matricidio di Oreste, che funestarono la casa di Agamennone.
2. Ma il processo di depenalizzazione di Paride e dei Troiani attivato da Darete nel suo De excidio Troiae historia si spinge ancora oltre. Il passo successivo rispetto alla deresponsabiliz- zazione ottenuta con una rielaborazione del materiale diegetico che sembra presentare si- gnificativi addentellati con la tecnica retorica della relatio criminis appare quello di derubricare l’unione tra Elena e Paride dal crimen unilaterale di raptus, compiendo una operazione che mostra più di un parallelo con il dibattito giuridico in materia.
È noto, infatti, come la natura ambigua di crimen commune, «illecito per sua natura bila- terale», ossia caratterizzato dalla compartecipazione di due soggetti24, peculiare dell’adulte- rium/stuprum, rendesse problematico il riconoscimento di innocenza della donna e di esclusione della sua correità: a segnare il discrimine è l’accertamento dell’uso della vis che consente di collocare la partner femminile nel ruolo di vittima, affrancandola dalla societas criminis25. È altrettanto noto come la problematicità di tale accertamento risulti determinata dalla radicalità e persistenza nella cultura antica di un modello culturale che presuppone il quasi inevitabile coinvolgimento della donna (vis grata puellis)26 imputabile alla levitas animi connaturata al genere femminile. Queste stesse categorie interpretative vengono applicate anche in relazione al ratto consumato ai fini di libidine in quanto, come risulta sia dalle te- stimonianze letterarie che da quelle di ambito giuridico, per lungo tempo la nozione di raptus non sembra differente da quella di stuprum violento27. È solo con la costituzione di Costan- tino, emanata probabilmente nel 32628 e accolta dal Codice Teodosiano (C. Th., 9.24.1), che il raptus esce dall’ambito del crimen vis e diviene un reato con un suo proprio autonomo sta- tuto, per evidenziare, rispetto al normale stuprum violento, il presupposto dell’abductio del soggetto e per costruire una categoria più generale di raptus nella quale far confluire l’ipotesi in cui la donna sia consenziente29.
La reinterpretazione del raptus condotta sulla base della dinamica di ruoli e/o responsa- bilità tra il raptor e la sua presunta vittima, e in particolare il rilievo conferito da Darete al consenso, o quanto meno alla mancata resistenza di Elena, sembrerebbero, dunque, rinviare ad un dibattito che proprio nella cultura tardo-antica presumibilmente coeva alla versione latina del De excidio Troiae historia aveva registrato particolare vivacità, investendo oltre al- l’ambito letterario anche quello giuridico30.
È, infatti, ampiamente noto e comprensibile come intorno al personaggio di Elena, in virtù della sua valenza paradigmatica e simbolica del genere femminile, si fossero agglutinate e criticamente confrontate, nelle diverse riletture e interpretazioni del mito, istanze che ri- flettevano un ben più complesso e articolato orizzonte ideologico e culturale. Accadeva, così, che nell’universo omerico, in cui la responsabilità si concentrava essenzialmente sul- l’infrazione del vincolo di ospitalità da parte di Paride, si finisse per attribuire a Elena un ruolo nella guerra che prescindeva dal suo coinvolgimento attivo. Spesso associata agli esiti infausti del decennale conflitto e reiteratamente definita, a prescindere dalla sua volontà, come la causa della morte di molti eroi achei e dei lutti e delle disgrazie inflitte sia ai Greci che ai Troiani, al punto da esprimere il desiderio che non fosse mai nata31, la sposa di Me- nelao non è considerata «una parte in causa ma solo l’oggetto del contendere»32. Sulla base di queste premesse, l’assenso da lei dato al rapimento non modifica nella sostanza la respon- sabilità di Paride, che ha offeso Menelao e ne ha minato il prestigio sociale con o senza la complicità di Elena33: «l’assenso al ratto si configura semmai come colpa supplementare che lo sposo può punire separatamente quale signore della casa» ma che, lungi dal ridimensio- nare la responsabilità del rapitore, «ne aggravava la colpa»34.
In questa prospettiva la differenza tra ratto e fuga consenziente appare, dunque, più sfu- mata. Diversamente stanno le cose per Darete: tramontata l’epoca in cui il rapimento della donna si riduceva esclusivamente a un «affare tra uomini», diventa infatti necessario definire responsabilità e ruoli. In definitiva, la quaestio è la seguente: è legittimo parlare di raptus? Elena è vittima o corresponsabile?
L’autore del De excidio Troiae historia sembra non avere dubbi al riguardo: Elena ebbe una parte attiva nella vicenda. E la narrazione di Darete si arricchisce e si colora di toni roman- zeschi, a cominciare dallo scenario in cui si verifica l’incontro tra Alessandro ed Elena. Non più l’austera reggia di Sparta dove aleggia incombente la presenza del legittimo sposo Me- nelao, ridotto qui al ruolo di un’evanescente comparsa: intercettata casualmente la flotta reale frigia mentre egli si reca a Pilo da Nestore e chiestosi stupito le ragioni di quella spedi- zione, il consorte di Elena scompare dalla scena dopo un inquietante e, per certi versi, grot- tesco incrocio di sguardi con il suo antagonista35. Sembra quasi di avvertire il silenzioso fluttuare della nave di Menelao che si allontana all’orizzonte mentre il focus della narrazione si sposta sul nuovo teatro della vicenda: l’isola di Citera, luogo sacro a Venere36. Lì Alessan- dro, inviato dal re Priamo a Sparta come ambasciatore per chiedere a Castore e Polluce la restituzione di Esione e la riparazione dei torti subiti, come si è detto, aveva fatto tappa in attesa di portare a compimento la sua missione37. E lì Elena decide, in piena autonomia e in assenza del marito, di recarsi38:
X. At Helena vero Menelai uxor, cum Alexander in insula Cytherea esset, placuit ei eo ire […] Quod ubi Alexandro nuntiatum est, Helenam ad mare venisse, conscius formae suae, in conspectu eius ambulare coepit, cupiens eam videre. Helenae nuntiatum est, Alexandrum Priami regis filium ad Helaeam oppidum, ubi ipsa erat, venisse. Quem etiam ipsa videre cu- piebat. Et cum se utrique respexissent, ambo, forma sua incensi, tempus dederunt ut gratiam referrent.
Non è rimasta più alcuna traccia, in questa nuova variante della fabula, del tradimento ingeneroso e sleale dei vincoli di ospitalità che per secoli aveva macchiato la fama di Ales- sandro-Paride: il figlio di Priamo riveste qui i panni legittimi dell’ambasciatore inviato in missione per esigere la soddisfazione di un torto subìto. Nessun debito di gratitudine, dun- que, nei confronti di Menelao, su cui piuttosto grava la responsabilità di essere stato custode poco accorto della pudicitia della sposa lasciata incautamente sola dal coniuge e libera di re- carsi nell’isola di Citera proprio mentre Alessandro si trovava in quel luogo39. Quanto ad Elena e al suo ruolo nella vicenda, basterebbe dare uno sguardo ai già citati documenti ela- borati dalla cancelleria imperiale e alla centralità in essi conferita al controllo capillare “di condotte, gesti, atteggiamenti femminili utili a cogliere i segni della ‘volontà’ della donna che ne rilevino l’eventuale impudicizia”40, per cogliere nella costruzione daretiana di questo quadro narrativo il medesimo intento di marcare il coinvolgimento attivo della rapta.
Prima ancora che nell’esplicitazione inequivocabile della societas criminis della presunta vittima del raptus, resa evidente dalla sua connotazione come non invita (X), la sua compar- tecipazione è affidata, infatti, a quei segnali impliciti ma altrettanto inequivocabili che ave- vano indotto il testo della cancelleria imperiale a prevedere la punibilità anche per le raptae invitae:
C. Th., 9, 24:
I pr. Si quis nihil cum parentibus puellae ante despectus invitam eam rapuerit vel volentem abduxerit patrocinium ex eius responsione sperans, quam propter vitium levitatis et sexus mobilitatem atque consili a postulationibus et testimoniis omnibusque rebus iudiciariis anti- qui penitus arcuerunt, nihil ei secundum ius vetus prosit puellae responsio, sed ipsa puella potius societate criminis obligetur.
2. et si voluntatis adsensio detegitur in virgine, eadem qua raptor severitate plectatur, cum neque his impunitas praestanda sit, quae rapiuntur invitae, cum et domi se usque ad coniun- ctionis diem servare potuerint et, si fores raptoris frangerentur audacia, vicinorum opem cla- moribus quaerere seque omnibus tueri conatibus.
La problematicità inerente all’individuazione della responsabilità della donna, legata al- l’accertamento della volontà e, dunque, al ruolo di vittima o compartecipe, trova riscontro non solo nelle narrazioni letterarie di rapimento, ma persino in un testo normativo quale, appunto, la costituzione di Costantino: anche il dettato imperiale, che riflette una questione ampiamente e da tempo dibattuta, come dimostra la ricorrenza di questo tema in ambito declamatorio41, fonda, come è noto, le sue premesse sulla convinzione, profondamente ra- dicata nella tradizione letteraria antica e nel codice culturale, che la causa dell’iniziativa ero- tica maschile sia la donna che non si attiene a determinate regole di condotta. Vanno lette in questa luce le argomentazioni addotte nel testo elaborato dalla cancelleria imperiale per considerare passibile di punizioni, sebbene meno rigorose rispetto a quelle previste per la rapta consenziente (volentem abduxerit), anche colei che, pur se estranea alla societas criminis in quanto invita (invitam rapuerit), abbia, comunque, adottato una condotta a dir poco di- sinvolta, non rimanendo al sicuro all’interno delle mura domestiche ma mostrandosi in pubblico e, dunque, esponendosi ai desideri altrui: il mancato ricorso a tutti i possibili ten- tativi di difesa e ad una condotta adeguata ad evitare la violenza finisce, pertanto, per far ri- cadere sulla donna il sospetto, fondato sulla levitas animi connaturata al genere femminile, di avere in qualche modo provocato o, quanto meno, assecondato l’iniziativa dell’uomo42. Nella ricostruzione dei fatti resa da Darete non vi è, infatti, ombra di dubbio circa la so- cietas criminis di Elena: la donna non si è limitata ad esporsi ai rischi della seduzione deci- dendo di recarsi nell’isola di Citera proprio mentre Alessandro si trovava in quel luogo, e per di più in assenza del marito, ma, lungi dal ricoprire il ruolo passivo di vittima delle arti seduttive del principe frigio, si è resa protagonista attiva di un vero e proprio gioco amo- roso43. È quanto si evince dalla reciprocità del desiderio erotico affidato, in linea con la tra- dizione in materia, al veicolo della vista44. Alla condotta spregiudicata di Alessandro che, consapevole del potere di fascinazione della propria bellezza nonché rassicurato dal sogno in cui Venere gli promette la più bella tra le donne45, decide di mettere in atto il suo potere seduttivo passeggiando al cospetto della donna per ammirarne la celebrata bellezza, corri- sponde, infatti, in Elena un’analoga spinta emotiva a soddisfare, attraverso il veicolo visivo, il desiderio di incontrare il seducente principe frigio. La reciprocità, segnalata anche a livello testuale già nella fase volitiva da una significativa rifrazione lessicale dei verbi cupio e videre in efficace collocazione chiastica (X. cupiens eam videre… quem etiam ipsa videre cupiebat)46, trova esplicita e inequivocabile manifestazione – affidata alle forme pronominali utrique e ambo e al prefisso verbale re- (referre; respicio) – nella fase immediatamente successiva e direi quasi consequenziale dell’innamoramento47 (et cum se utrique respexissent, ambo forma sua in- censi) e della reciproca ricerca di piacere (tempus dederunt ut gratiam referrent), se è a questo che allude la controversa espressione ut gratiam referrent48. L’incontro tra l’affascinante prin- cipe frigio e la donna più bella del mondo viene, così, affrancato dal sospetto di violenza per il presunto raptor: in questa nuova variante della fabula la parte femminile non svolge il ruolo passivo di vittima ma recita sino in fondo il copione affidatole dal codice elegiaco nella schermaglia amorosa. E se questa passione sia stata ingenerata dagli dèi, come asseri- scono Eschilo o Gorgia, o sia da inscrivere tutta e solo nella dimensione umana in cui essa appare originata dalla bellezza o dal potere altrettanto fascinoso e seduttivo delle parole, poco importa. Quel che conta ai fini dell’assoluzione dell’illustre imputato e, ancor più in generale, della deresponsabilizzazione dei Troiani rispetto alle cause del conflitto decennale che li vide contrapporsi ai Greci è che Elena svolse in questa vicenda un ruolo attivo49 e pari a quello del suo presunto seduttore.
Il consenso della presunta vittima (Elena) sedotta dal fascino di Paride e, dunque, con- senziente, indurrebbe ad annoverare la sottrazione della sposa di Menelao tra i casi definiti nella costituzione di Costantino di abductio piuttosto che in quelli di raptus riferiti alla donna invita50. La questione principale su cui verte la disputa, lo status causae, andrebbe pertanto individuato, in questo caso, nello status definitivus, applicabile quando ad essere oggetto di contenzioso non è l’ammissione di aver commesso il fatto oggetto di giudizio, ma l’esatta natura di quest’ultimo e la sua precisa denominazione (cfr. Mar. Victor. rhet. 190, 41 Halm: ‘feci, sed non sic vocatur’)51.
La tradizione relativa al raptus di Elena e, soprattutto, alle responsabilità di Alessandro- Paride viene, pertanto, reinterpretata da Darete: allo scambio reciproco di gratiae tra i due amanti segue il trasferimento nell’isola di Tenedo, a cui la donna non oppone resistenza, come si evince dal nesso non invita che evoca significativamente il caso discusso nel testo della cancelleria imperiale (X: Helenam non invitam eripiunt) e, dopo un lungo viaggio per mare, l’approdo a Troia. Qui il re Priamo, dopo essersi congratulato con il figlio per il felice esito dell’impresa, che avrebbe finalmente posto fine alla catena di torti-riparazioni ristabi- lendo l’equilibrio turbato con il ratto di Esione (XI: Interea Alexander ad patrem suum cum magna praeda pervenit et rei gestae ordinem refert. Priamus gavisus et sperans Graecos ob causam re- cuperationis Helenae sororem Hesionam reddituros et ea quae inde a Troianis abstulerunt) e aver, dunque, legittimato la sottrazione della sposa di Menelao con il ricorso alla relatio criminis, depenalizza ulteriormente il presunto raptus conferendo all’unione tra Alessandro ed Elena i crismi del matrimonio (XI. Helenam maestam consolatus est et eam Alexandro coniugem dedit)52. Ogni residua nube sulla fama dei due amanti viene così fugata: la missione diplomatica fi- nalizzata al risarcimento di una precedente iniuria affranca il figlio di Priamo dal ruolo in- famante di infido seduttore delle mogli altrui, mentre il matrimonio suggellato dal consenso paterno, in piena adesione alla normativa in materia di raptus53, fa della sposa infedele di Menelao una “donna onesta”.
Appendice - Ancora sul ‘caso’ di Elena: la riscrittura di Dione di Prusa
Decisamente più “economica”, per usare una suggestiva definizione di Mario Lentano54, la prospettiva di lettura adottata per il rapimento di Elena come casus belli da Dione di Prusa in quella sua orazione (Orazione XI)55 pronunciata probabilmente alla fine del I secolo d.C. al cospetto degli abitanti di Ilio, discendenti dei Troiani.
In linea con il principio ispiratore dell’opera, orientato appunto, come si desume dal po- tere evocativo del titolo stesso, «Troia non è mai stata presa», a privare di veridicità il racconto omerico in cui i fatti relativi alla guerra di Troia sarebbero stati inventati di sana pianta per compiacere il pubblico greco, il brillante retore e filosofo, che per la dolcezza del suo eloquio meritò il soprannome di Crisostomo, “Bocca d’oro”, adotta una tesi “negazionista” anche in relazione all’evento tradizionalmente posto alla base di uno dei conflitti bellici più epocali e luttuosi registrati dalla tradizione classica. Non solo i Troiani non risultarono sconfitti né Troia fu mai conquistata, ma altrettanto eclatante è la loro deresponsabilizzazione quali ar- tefici del conflitto a causa del rapimento di Elena56. Dione è molto più caustico e definitivo di quanto sarà qualche secolo dopo il probabile traduttore latino dell’opera di Darete. Non si tratta di stabilire se e quali furono le responsabilità di Paride quale autore di un rapimento perpetrato con la violenza fisica o con quella altrettanto coercitrice esercitata mediante il potere seduttivo della bellezza, o ancor più, dell’eloquio; né si tratta di cercare di tracciare il labile discrimen che separa il ruolo di vittima da quello di correa per la donna, sulla base di un presunto, esplicito o implicito assenso. Il ratto di Elena semplicemente non ci fu57.
Se volessimo continuare ad applicare anche alla narrazione di Dione, come abbiamo già fatto per il De excidio Troiae historia, la complessa dottrina degli status causae58, dovremmo fare ricorso a quello che viene definito dai retori status coniecturalis, in cui l’accusato nega le imputazioni rivoltegli. Nelle cause ascritte a questo status diventa, pertanto, necessario pro- cedere per congetture, in modo da stabilire se il reo abbia effettivamente commesso quanto gli viene contestato oppure no59. E, in effetti, la ricostruzione dei fatti inerenti al presunto rapimento di Elena da parte di Paride, resa da Dione attraverso la “voce narrante” di un sa- cerdote egizio, considerato fonte più attendibile dello stesso Omero60, si fonda su argomen- tazioni orientate a privare di verosimiglianza e attendibilità tale ipotesi61. La conclusione a cui si giunge al termine di questo impianto argomentativo, in linea con quanto previsto per le cause che rientrano nello status coniecturalis, è, appunto, quella di dimostrare che il reo, nello specifico Paride, non commise quanto gli viene ascritto dalla tradizione.
Ben altre rispetto ad un presunto ratto furono infatti – a detta del retore di Prusa – le cause della guerra, individuate, secondo un’ottica improntata ad una visione “tucididea” della storia, in questioni di natura politica ed economica (il timore di Agamennone e dei Greci tutti che Alessandro, grazie al suo matrimonio con Elena, potesse estendere il suo do- minio anche in Grecia62, nonché il desiderio di conquistare una terra ricca come Troia63); ben altre furono le modalità secondo cui si svolsero i fatti che portarono alle nozze tra Paride e Elena. Non si trattò di un matrimonio conseguente ad una azione di raptus e sulla cui “le- galità” la cancelleria imperiale, come abbiamo avuto modo di rilevare, qualche secolo dopo avrebbe espresso le sue riserve64, già emerse, sia pure in forma non sistematica, nell’ambito di quelle scuole di declamazione65 a cui Dione, data la sua sensibilità di consumato retore, non dovette essere estraneo66. Molto più credibile, rispetto alle fantasie omeriche, la storia raccontata dal sacerdote egizio67: le nozze tra Paride ed Elena si sarebbero svolte secondo un copione ampiamente codificato nel mito così come nella tradizione letteraria e favolistica, al termine di un regolare certamen tra i pretendenti alla mano della figlia del re Tindaro, Elena, bandito dal sovrano-padre a seguito della proposta di matrimonio avanzata da Aga- mennone. Questi infatti, dopo aver preso in sposa l’altra figlia di Tindaro, Clitemnestra, per ragioni dettate da opportunità politiche (rafforzare il potere in Argo imparentandosi con i sovrani di Sparta), spinto dalle stesse istanze, aspirava a dare Elena in moglie al fratello Menelao. L’opposizione a questa richiesta degli altri Greci che rivendicavano maggiore affi- nità di stirpe con Elena rispetto a Menelao, figlio di Pelope, rese, appunto, necessario bandire un certamen tra i pretendenti alla mano della principessa: questi giunsero numerosi anche da paesi stranieri, attratti dalla fama della bellezza della sposa e dalla potenza dei fratelli e del padre68.
Tra i partecipanti a questo certamen, di cui viene data notizia già in Esiodo, dove la palma del vincitore viene assegnata, appunto, a Menelao69, Dione introduce una new entry, Ales- sandro figlio di Priamo, giustificando la presenza di uno “straniero” tra i pretendenti alla mano della principessa con precedenti illustri tratti dalla tradizione mitologica70. E fu così che il principe frigio, con il suo articolato discorso alla presenza di Tindaro, imbastito se- condo i canoni della suasoria71, sbaragliò i competitores e ottenne la mano della principessa Elena con il consenso dei genitori e dei fratelli72. Tutto regolare, dunque, come altrettanto regolare è l’evocazione di un altro canovaccio narrativo anch’esso attestato nella fabula quanto nel mito: mi riferisco all’inaspettata vittoria di tale certamen da parte del pretendente straniero che, in quanto tale, al pari di quel che accade nella fabula all’unpromising hero73, gode di minori chances dei suoi competitori che, nel caso specifico, manifestano apertamente il loro disprezzo nei confronti del “barbaro”74. Grazie al suo valore e alla potenza del suo regno, Alessandro viene, però, preferito agli altri pretendenti dal padre e dai fratelli di Elena, che è, pertanto, data in moglie al principe straniero75.
Come è noto – per limitarci a citare uno fra i tanti esempi tratti dal mito – un pretendente straniero rispetto al già designato sposo Fineo era stato Perseo nel certamen per le nozze con Andromeda, che l’eroe aveva ottenuto legittimamente in sposa dal padre Cefeo, dopo aver dato prova del suo valore salvando la fanciulla dall’esposizione al mostro marino76. Ma un pretendente straniero e, in quanto tale, in una posizione iniziale di svantaggio rispetto al promesso sposo Turno, era stato anche Enea nel certamen per ottenere la mano di Lavinia e divenire così sovrano di quelle terre, un certamen che anche in quel caso si era trasformato in casus belli77. E non è forse da escludere che nella sua ricostruzione degli eventi relativi al presunto ratto di Elena, l’oratore di Prusa, proveniente dall’élite della provincia romana di Bitinia, in Asia Minore, e così ben integrato nella Roma imperiale, avesse in mente di com- piacere i padroni dell’impero con un ulteriore omaggio, attraverso la celebrazione di Paride, al mitico fondatore della gens Iulia, in linea con l’orientamento di fondo di quest’orazione in cui il passato contribuisce «all’orgoglio e all’identità romana, che sin dall’età augustea si era riconosciuta nella stirpe troiana di Enea»78.